Francesco Perrone
Giudice del lavoro presso il Tribunale di Padova
7 Marzo 2021
1. La questione del possibile “uso alternativo” del diritto del lavoro.
Sul palcoscenico del contemporaneo dibattito politico-istituzionale si aggira un personaggio in cerca d’autore. È il giudice del lavoro italiano, scosso, nel travaglio di una crisi identitaria, da un disorientante interrogativo: quale sia, nell’attuale intreccio delle forze statuali, sociali ed economiche, l’autentico ruolo svolto dal giudice del lavoro.
I tradizionali valori che hanno da sempre caratterizzato l’essenza concettuale dell’identità del giudice – quali l’indipendenza, la difesa del governo autonomo, la non burocratizzazione della funzione, la tutela del pluralismo culturale, la recessione del formalismo a vantaggio della giustizia sostanziale – si trovano ora in tensione nel contesto di crisi sistemica che, nel loro complesso, le istituzioni della Repubblica stanno vivendo.
L’identità “istituzionale” del giudice del lavoro – in realtà di ogni giudice – è sempre più scissa tra gli opposti poli del sostanzialismo e del formalismo giuridico, della neutralità funzionale e della vocazione alla supplenza, del dovere deontologico di self-restraint e del ruolo protagonistico sulla scena mediatica, del timore per la burocratizzazione e del problematico approccio culturale rispetto alla questione dell’equilibrio con gli altri poteri dello Stato. La questione identitaria, soprattutto per la giurisdizione del lavoro, diviene particolarmente scottante ai tempi della crisi, ove la scarsità delle risorse fa sì che ciò che è dato ad uno sia tolto all’altro: così, sono sempre più numerosi coloro che restano a digiuno. Assistiamo quindi alla capillarizzazione nella collettività di una strabordante aspettativa: che sia il giudice del lavoro a farsi dispensatore di equità sostanziale.
Invocare la giustizia sostanziale del giudice significa, al contempo, denunciare la crisi del diritto positivo, e quindi la sfiducia nella capacità della legge di preregolamentare i fatti di rilevanza giuridica. Quanto più si invoca la giustizia sostanziale, tanto più si prefigura per il giudice un ruolo di intervento nella selezione degli interessi in conflitto e nell’individuazione del loro punto di equilibrio. Questa tensione si traduce nella pretesa che sia il giudice a porre rimedio alle fratture che si aprono tra il rigore della legge formale, da un lato, e l’aspirazione ad un equilibrato bilanciamento in concreto degli interessi in gioco dall’altro lato.
Tale crisi identitaria richiama la rinnovata attualità del tema dell’individuazione del confine tra interpretazione e creazione del diritto, tra neutralità del magistrato e policy making, tra interventismo del giudice nel processo e funzione ordinamentale dell’autorità di garanzia.
Il problema della ricognizione del ruolo del giudice riguarda, in primo luogo, l’individuazione della linea di demarcazione tra l’ambito riservato alla giurisdizione rispetto alle attribuzioni proprie degli altri poteri dello Stato. Si considerino, a tale proposito, le diffuse critiche mosse da quanti accusino la magistratura di “politicizzazione”. Tale espressione tende a riferirsi sia all’ipotizzata strumentalizzazione dell’azione giudiziaria in funzione di fini esorbitanti rispetto a quelli assegnati dalla Costituzione e dalla legge, sia all’assunzione di una straripante funzione di controllo e di condizionamento dell’operato proprio di altri poteri dello Stato, così interferendo indebitamente con la sfera delle attribuzioni pubbliche estranee alla giurisdizione.
L’accusa di “politicizzare” la funzione giudiziaria ha colpito con particolare durezza la giustizia del lavoro. Il Libro Bianco sul mercato del lavoro del 2001, nella propria qualità di atto d’orientamento politico del governo dell’epoca, si è spinto a definire esplicitamente la giustizia del lavoro come portatrice “d’iniquità”, in quanto unilateralmente diretta a favorire gli interessi dei lavoratori e dei sindacati a detrimento degli interessi delle imprese. Taluni autori hanno invocato una “nuova laicità” del giudice del lavoro, ed invitato alla “modernizzazione” in tal senso della giustizia del lavoro.
Si pensi ancora, questa volta sul piano propriamente tecnico-interpretativo, al dibattito dottrinale e giurisprudenziale innescato e continuamente ravvivato dalla propensione, tradizionalmente espressa da taluni approcci giurisprudenziali, ad estendere il sindacato giurisdizionale sul merito delle scelte imprenditoriali che, secondo i critici, il principio costituzionale di libertà d’iniziativa economica riserva all’apprezzamento d’opportunità economico-organizzativa dell’imprenditore (c.d. merito imprenditoriale).
L’atto di supposta devianza nell’esercizio della funzione giudiziaria si trasforma in autentico atto di supplenza quando esso assuma una particolare connotazione finalistica: quella di colmare gli spazi lasciati vuoti, o ritenuti tali, da altro potere dello Stato. Fortemente incisiva nella quotidiana praxis giudiziaria è la supplenza che di fatto viene delegata alla giurisdizione dagli organi di indirizzo politico-amministrativo ogniqualvolta questi ultimi non siano in grado di fornire risposte politiche compiute alle istanze sociali della collettività di riferimento. A questo proposito, l’esperienza politico-giuridica dimostra che vi sono spazi sempre più ampi lasciati vuoti dal legislatore, che il giudice è funzionalmente chiamato a riempire in virtù dell’assioma della “densità” dell’ordinamento giuridico.
2. Il giudice è un possibile attore del processo di policy making?
Come ampiamente documentato e argomentato nell’ormai classica opera The global expansion of judicial power di Tate e Vallinder, nel contemporaneo contesto storico-politico dell’intero Occidente giuridico si assiste ad un fenomeno di progressiva espansione globale del potere giudiziario. La comparazione con i sistemi giudiziari propri dei paesi di common law offre una peculiare utilità euristica se si considera che, tra questi ultimi, in particolare due modelli presentano tratti per certi versi paradigmatici: da un lato il sistema statunitense, caratterizzato dal ruolo di preminenza ordinamentale assunto dal giudice nel sistema politico-costituzionale; dall’altro lato il modello proprio del Regno Unito, caratterizzato da una magistratura dall’impronta istituzionale ben più conservatrice ed ancorata al principio di supremazia ordinamentale della sovranità parlamentare.
Nell’ordinamento statunitense la posizione di preminenza che assiste il potere giudiziario trova peculiare espressione nell’utilizzabilità da parte giudice, tra le tecniche di tutela dei diritti a sua disposizione, del potere di judicial review, consistente nel potere diffuso di disapplicazione degli atti normativi che il giudice ritenga in contrasto con le norme della Costituzione americana. Diversamente accade – e per certi versi antiteticamente – nell’ordinamento britannico ove, in coerenza rispetto allo spiccato senso di self-restraint tradizionalmente dimostrato dalla funzione giudiziaria nei rapporti con gli altri poteri dello Stato, nemmeno è concepibile un vero e proprio controllo di costituzionalità degli atti del parlamento. Emblematico è il meccanismo di funzionamento dello Human Rights Act del 1998, il quale assume che il principio di primazia parlamentare escluda per l’autorità giurisdizionale qualunque possibilità di rimozione o superamento dell’atto legislativo che si riveli in conflitto con le disposizioni della CEDU: al giudice nulla resta se non il potere di emettere una declaration of incompatibility, cui segue un remedial order del ministro competente, eventualmente anche in deroga alla legislazione secondaria se non rimossa dal potere legislativo, la quale resterebbe per il resto normalmente applicabile.
Nell’ordinamento statunitense, all’opposto, la disponibilità della tecnica del judicial review colloca il giudice in rapporto di diretta interlocuzione con la Costituzione, tanto che l’esercizio della giurisdizione si inserisce a pieno titolo nel circuito di determinazione dell’indirizzo politico amministrativo dello Stato. Ciò rappresenta una logica conseguenza di quanto sancito dall’art. 3 della Costituzione del 1787, che configura quello giudiziario come vero e proprio “Power of the United States”. Quest’ultima norma, in raccordo con gli emendamenti da 1 a 10 (c.d. bill of rights, poi progressivamente esteso), riconosce al giudice il ruolo di autentico attore di policy making, di agente attivo nel procedimento di determinazione qualitativa e quantitativa dell’ambito di tutela dei diritti civili e politici di derivazione costituzionale. La giurisdizione risulta pertanto pervasa da una venatura di più marcata incidenza nella definizione dell’indirizzo politico dell’ordinamento strettamente inteso, specialmente per quanto attiene al momento della selezione degli interessi meritevoli di tutela giuridica. Per questa via ha preso forma il modello del giudice “guardiano”, garante dei diritti civili e politici contro i possibili abusi delle istituzioni rappresentative, compresi i rischi di tirannia della maggioranza. Il giudice è tutore della Costituzione, espressione dell’originaria sovranità costituente, a difesa dagli attacchi della nuova sovranità popolare, contingente espressione delle mutevoli maggioranze legislative.
La concezione della funzione giurisdizionale affermatasi nel sistema ordinamentale statunitense si pone agli antipodi rispetto alla tradizionale dottrina, frutto di un’ormai antica impostazione concettuale, che concepisce il giudice quale bocca della legge, ispirata al tramontato dogma prima giusnaturalistico, poi anche giacobino (e pur rimeditato da taluni dottrinari anglosassoni sostenitori della teoria c.d. dichiarativa del diritto quali John Austin e William Blakstone), secondo il quale politica e giurisdizione sono sfere distinte e tra loro irriducibili, i cui rispettivi ambiti di dispiegamento attengono il primo al momento di creazione pura del diritto, il secondo a quello di ricognizione formale di una regola precostituita e non interpretabile.
La descritta posizione di interlocuzione privilegiata del giudice statunitense con le clausole costituzionali offre lo spunto per mettere a fuoco uno dei principali profili di criticità caratterizzanti la questione dell’identità del giudice nell’ordinamento italiano: se anche per quest’ultimo possa valere il principio per cui il giudice, in primis quello del lavoro, interloquisce direttamente con i principi espressi dalla Costituzione (il problema si pone in termini meno drammatici rispetto alle “regole” costituzionali, come magistralmente sviscerato dalla dottrina di Gustavo Zagrebelsky), ora arricchiti dalle Carte europee dei diritti fondamentali, ovvero se essi siano per il giudice nazionale un termine di referenza solo mediato, inaccessibile se non per mezzo del filtro immediato rappresentato dalle norme “attuative” di rango legislativo ovvero dal sindacato di legittimità svolto dall’organo accentrato di giustizia costituzionale.
3. Esiste uno spazio per la concezione politica del giudice?
Il dilemma concettuale ora delineato ha tradizionalmente caratterizzato e, con rinnovata attualità, tutt’ora caratterizza il dibattito sviluppatosi anche in seno agli orientamenti culturali – più o meno progressisti, più o meno conservatori – espressi dalla stessa magistratura associata in merito al ruolo ordinamentale del giudice: se esso sia attivo promotore della tutela di diritti e di valori “costituzionali”, garantiti dalla Carta costituzionale nazionale piuttosto dalle Carte di fonte sovranazionale ed internazionale (prime tra tutte la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo), ovvero se esso sia, più sobriamente, neutrale controllore della legalità.
Occorre precisare che, da un lato, la partecipazione al processo di determinazione giudiziale del contenuto precettivo delle norme giuridiche e, dall’altro lato, l’inserimento a pieno titolo della funzione giurisdizionale nel complessivo circuito del policy making (come nel sistema nordamericano) non sono, a rigore, concetti tout court sovrapponibili.
Mentre il primo allude alla portata innovativa che imprescindibilmente assiste l’attività di interpretazione del diritto, di qualunque tipologia essa sia, il secondo attiene al ruolo di compartecipazione al processo di complessiva determinazione dell’indirizzo politico-amministrativo dello Stato, che la tradizione costituzionale continentale riserva saldamente al raccordo istituzionale Governo-Parlamento. La dottrina e la praxis costituzionalistica statunitense ammettono che il giudice sia abilitato ad assegnare alla disposizione interpretata valenze semantiche anche esorbitanti dal campo di esistenza dei possibili significati logicamente deducibili dalla disposizione oggetto di interpretazione, ricercando valenze normative direttamente derivate dalla lettura – eventualmente “morale”, come teorizzato inter alia da Dworkin – delle clausole costituzionali. In questo senso, sotto il profilo ordinamentale, al giudice è attribuito un ruolo di autentico attore di policy making. Il giudice della Suprema Corte statunitense W. J. Brennan ha efficacemente individuato l’essenza della funzione giurisdizionale “nella consapevole applicazione di una teoria politica più o meno chiara e sostanziale”, per lo meno qualora si intenda mantenere la funzione giurisdizionale nell’alveo di “un’interpretazione della Costituzione moralmente ed intellettualmente difendibile” (si vedano, emblematicamente, le opinioni espresse dal giudice Brennan nei famosi casi Baker v. Carr del 1962 e Green v. County Sch. Bd. of New Kent County del 1968).
Occorre allora domandarsi se il giudice italiano, qualora intenda assumere i sistemi costituzionali (nazionali e sovranazionali) di tutela dei diritti fondamentali quali immediato termine di referenza interpretativa, applicativa ed assiologica, si renda per ciò solo responsabile di un indebito sconfinamento dall’ambito della riserva di giurisdizione, dando vita ad una pseudo-interpretazione sostanzialmente abnorme e quindi ad un atto di “governo dei giudici”, ovvero se si tratti semplicemente di una possibile declinazione, tra le molteplici disponibili, del modo di intendere il ruolo della giurisdizione nel nostro ordinamento.
Tale interrogativo ne presuppone un altro dalla portata ancor più pervasiva: quale sia la posizione del magistrato all’interno della società contemporanea. Se quella dell’impassibile applicatore della legge istituzionalmente insensibile alle ricadute sostanziali provocate delle scelte legislative presupposte (dura lex sed lex), ovvero quella del garante ultimo dell’equità sostanziale nel caso concreto, e quindi interprete del senso di giustizia storica il quale provveda a neutralizzare le ipotizzate aberrazioni prodotte dal formalismo giuridico (summum ius summa iniuria), o comunque concorra a dare attuazione nel tessuto socio-giuridico particolare ai valori costituzionali o sovranazionali rimasti inespressi – o concretamente sconfessati – sul piano della legislazione derivata.
La radicalizzazione di quest’ultima posizione ha senz’altro caratterizzato, tra il 1965 e il 1972, l’essenza delle impostazioni teoriche proprie dei sostenitori del c.d. “uso alternativo del diritto” e della esplicita politicizzazione della funzione giudiziaria. Tanto che nelle impostazioni culturali più estreme si giunge esplicitamente a teorizzare la funzionalizzazione della tecnica giuridica al perseguimento di puri obiettivi politici, tra cui l’emancipazione economica e sociale delle classi lavoratrici. E’ peraltro interessante notare come nel periodo della guerra fredda, quasi paradossalmente, sia stato proprio l’ambiente culturale della magistratura progressista ad elaborare un modello di magistrato connotato da intimi punti di affinità con il modello proprio della tradizione nordamericana.
4. Lo spazio critico della giurisdizione del lavoro.
A tale riguardo la giurisdizione lavoristica rappresenta un punto di osservazione empirica particolarmente interessante.
In primo luogo per ragioni di carattere politico-sostanziale: il diritto del lavoro nasce sul presupposto politico dell’ontologico squilibrio tra la posizione del proprietario dei fattori della produzione e quella del prestatore di lavoro. Essa pertanto si caratterizza per l’esistenza di un compiuto sistema normativo teleologicamente orientato, nel suo complesso, a riequilibrare una situazione di disuguaglianza sostanziale la quale, se abbandonata alla legge naturale “del più forte”, finirebbe per provocare – e storicamente ha provocato, come dimostrato dalle rivoluzioni industriali ottocentesche – l’assoggettamento di talune “classi” di esseri umani al potere incontrollato delle “classi” dominanti.
In secondo luogo per ragioni di carattere giuridico-formale: al fine di assicurare il raggiungimento, quantomeno tendenziale, dell’obiettivo politico ora delineato, il diritto del lavoro si connota per la predisposizione normativa di tecniche di tutela dei diritti reciprocamente spettanti caratterizzate da una struttura anche formalmente asimmetrica. Il diritto del lavoro è pertanto un diritto formalmente “diseguale” sull’assunto che, essendo sostanzialmente (e inversamente) “diseguali” le parti del rapporto di lavoro, è l’ordinamento giuridico positivo a dover compensare con mezzi formali tale ontologico disequilibrio strutturale (favor lavoratoris).
In terzo luogo per ragioni di carattere economico-sociale: l’attuale sistema delle relazioni industriali è connotato dallo scontro sempre più aspro tra interessi economici divergenti i quali non sembrano suscettibili di trovare un condiviso punto di sintesi, e dal radicarsi di un sempre più intenso conflitto tra le parti sociali (anche di nuova formazione, come nel caso dei lavoratori in piattaforma) e gli organi governativi investiti delle scelte sulla politica industriale. Tanto che sempre più si delinea un fenomeno di progressiva giudiziarizzazione del conflitto sociale a scapito del naturale piano negoziale.
Su tali premesse, il contenzioso del giudice del lavoro è quello che più di ogni altro pone il dilemma dell’irrisolvibile conflittualità tra dura lex e summum ius, e pertanto quello che più di ogni altro apre possibili spazi ad interventi di supplenza diretti a ristabilire la ritenuta equità sostanziale ogni qualvolta le istituzioni investite di responsabilità politico-amministrativa non offrano compiute risposte formali nella soluzione dei conflitti sociali.
5. L’indagine di Labour Law Community: le visioni di tre giudici del lavoro a confronto.
Si impone allora un’impegnativa questione: qual è l’autentica linea di demarcazione che segna il confine tra il fisiologico esercizio della funzione di garanzia giurisdizionale e l’indebita interferenza nel circuito di determinazione dell’indirizzo politico-amministrativo, tra la garanzia dell’effettività del sistema multilivello di tutela dei diritti fondamentali e la salvaguardia della sovranità nazionale rispetto alle straripanti ingerenze di un total-europeismo accentratore, piuttosto che del mercatismo politico globale.
Labour Law Community si propone di indagare il tema tramite la pubblicazione, nei mesi di aprile, maggio e giugno, di tre post-intervista di cui saranno autori Valeria Piccone, Fabrizio Amendola e Marcello Basilico: tre giudici del lavoro noti nella comunità nazionale dei giuslavoristi per esprimere ciascuno, nell’esercizio concreto della giurisdizione, una distinta e ben caratterizzata visione del ruolo istituzionale svolto dal giudice del lavoro nell’Occidente contemporaneo.
L’indagine muove dall’assunto volutamente schematizzato, ed invero estremizzato, che nella cultura diffusa tra i giudici del lavoro, e forse tra i giuslavoristi in genere, siano rintracciabili tre distinte visioni culturali sul ruolo istituzionale del giudice, da cui derivano tre differenti concezioni sulla funzione socio-politica del diritto del lavoro e quindi tre distinti approcci interpretativi: la visione del giudice “pan-civilista”, che pone al centro dell’interpretazione giuridica il valore del dato normativo legale e ne radica il fondamento sul sostrato filosofico del giuspositivismo; quella del giudice “pan-costituzionalista”, che riconosce quale motore trainante della nomopoiesi la forza attrattiva dei principi costituzionali, in primis gli articoli 1, 3, 4 e 41 della Costituzione, anche andando al di là del significato proprio del dettato legislativo in nome della necessità di assicurarne l’orientamento ai valori costituzionali (si pensi alla stagione culturale, fortemente vissuta e dibattuta dalla magistratura italiana, del c.d. “uso alternativo del diritto”); quella del giudice “pan-europeista”, che riconosce il cuore della funzione giurisdizionale nel fine di assicurare preminente tutela ai diritti fondamentali fondati sui diversi ordinamenti sovranazionali, anche forzando o comunque mettendo sotto pressione gli ordinari meccanismi di interpretazione-applicazione del diritto propri dell’ordinamento costituzionale nazionale.
Valeria Piccone, Fabrizio Amendola e Marcello Basilico hanno accettato la sfida di essere “costretti” ciascuno all’interno di una di queste categorie di pan-giuristi. Ne risulterà un’esperienza culturale arricchente e “laica”: non solo in quanto alimentata dalla pulsione antimoralista che anima le esperienze del pensiero quando condotte “all’estremo”, ma anche in quanto distillata da autorappresentazioni mitologiche del sé, cui la magistratura italiana talora indulge quando pone l’affermazione dei valori quale fine ultimo e “sovrano” della giurisdizione, anziché riconoscere la valenza morale del diritto quale fondamento anticipante – “sottano”, citando l’ironica intelligenza di Zagrebelsky – nel quale i multiformi rami di un’esperienza giuridica autenticamente pluralista possano affondare le radici valoriali più profonde.
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[…] produce sul diritto del lavoro. Il tema è stato affrontato da Francesco Perrone nel post pubblicato lo scorso 7 marzo, che ha illustrato le ragioni dell’indagine volta a […]
[…] dalle considerazioni sulle ragioni dell’indagine svolte da Francesco Perrone nel suo post introduttivo, l’intervistato riflette sul senso e i contorni di un modello interpretativo […]