Giudici senza diritti: la saga della magistratura onoraria ad una svolta grazie all’intervento della Corte di giustizia

Giovanni Orlandini

Professore associato di Diritto del lavoro, Università di Siena

9 dicembre 2021

Nella poco onorevole storia patria del precariato nella pubblica amministrazione la saga dei giudici onorari occupa uno spazio affatto particolare. E di saga è quanto mai opportuno parlare, considerando che la controversia intorno allo status da riconoscere a tali (ormai) vitali attori del nostro sistema giudiziario si protrae da anni a causa di una contrapposizione tra istituzioni europee e nazionali di inedita asprezza. Ciò si spiega con la specificità dell’attività svolta dai giudici onorari, che tocca l’esercizio di poteri pubblici (quelli appunto giurisdizionali), come noto riservati alla piena sovranità degli Stati membri. Proprio nella diversa lettura della portata di tale riserva di sovranità va infatti colta l’origine del contrasto tra istituzioni nazionali ed europee.

La vicenda è troppo complessa e articolata per poter essere riassunta in questa breve nota (in merito si rinvia dunque alla completa ricostruzione di Giuseppe Ferraro in RGL 2021, p. 157 ss.).  Qui basti osservare come l’affatto peculiare statuto giuridico dei giudici onorari sia stato fino ad oggi giustificato alla luce di una lettura dell’art. 106 Cost. che renderebbe il rapporto “onorario” configurato dal disposto costituzionale in sé incompatibile con la qualifica di lavoratore subordinato. Da ciò il consolidarsi di una giurisprudenza assai poco attenta al carattere sostanziale dell’attività svolta da detti magistrati ed orientata a giustificare apoditticamente (se non aprioristicamente) la scelta del legislatore di escludere il carattere subordinato del loro rapporto di lavoro con il Ministero della giustizia (da ultimo Cass. ord. n. 10774 del 5 giugno 2020); una scelta, questa, confermata dalla riforma operata dal d.lgs. 116/2017 con la quale pur si è inteso apprestare un minimo di tutele lavoristiche, ancorandole però ad un inquadramento della magistratura non togata nell’ambito del lavoro autonomo. Una simile impostazione (tutta centrata, appunto, sulla supposta insindacabilità della legislazione nazionale relativa all’organizzazione della giustizia) non poteva però non scontrarsi con l’altrettanto consolidato approccio della Corte di giustizia alla questione del riconoscimento dello status di lavoratore, finalizzato a definire l’ambito di applicazione delle tutele previste dal diritto derivato dell’UE. Un approccio per il quale, come noto, non è dato ammettere zone franche sottratte all’applicazione del diritto dell’UE, se non nei limiti e nei termini previsti dalle stesse fonti unionali. 

Era dunque inevitabile che la questione dello status da riconoscere ai giudici onorari finisse sotto il vaglio dei giudici europei; ed era ampiamente prevedibile che le timide aperture contenute nel d.lgs. 116/17 venissero considerate insufficienti a sanare il contrasto con il diritto dell’UE. Fatto è che la sentenza UX dello scorso 16 luglio (causa C-658/18) con la quale la Corte di giustizia riconosce la qualifica di lavoratore subordinato (“worker”) ai giudici di pace, segna ormai un punto di non ritorno per la futura evoluzione della materia. 

Per risolvere la questione centrale posta alla loro attenzione (relativa al mancato riconoscimento del diritto alle ferie previsto dall’art. 7 della direttiva 2003/88/CE) i giudici europei forniscono indicazioni sia in merito agli indici da utilizzare per accertare la natura subordinata del rapporto dei giudici di pace, sia in merito ai criteri per accertare la comparabilità dell’attività da loro svolta con quella propria dei magistrati togati, onde valutare la conseguente eventuale esistenza di trattamenti discriminatori non ammessi dalla clausola 4 dell’AQ del 1999 relativo al contratto a termine. 

In relazione al primo profilo, per la Corte non residuano dubbi circa il fatto che i giudici di pace debbano considerarsi lavoratori subordinati. Sulla scia della precedente sentenza O’ Brien (causa C-393/10), i giudici europei ribadiscono come la circostanza che “i giudici […] possano essere considerati lavoratori non pregiudica minimamente il principio di indipendenza del potere giudiziario e la facoltà degli Stati membri di prevedere l’esistenza di uno statuto particolare che disciplini l’ordine della magistratura”. Anche per chi svolge funzioni giurisdizionali valgono dunque i principi enunciati sin dal leading case Lawrie-Blum, in virtù dei quali l’esistenza del vincolo della subordinazione “dev’essere valutata caso per caso in considerazione di tutti gli elementi e di tutte le circostanze che caratterizzano i rapporti tra le parti”. Decisivo appare di conseguenza il rilievo che “i giudici di pace sono tenuti a rispettare tabelle che indicano la composizione del loro ufficio di appartenenza, le quali disciplinano nel dettaglio e in modo vincolante l’organizzazione del loro lavoro, compresi l’assegnazione dei fascicoli, le date e gli orari di udienza”, nonché il fatto di essere sottoposti al potere direttivo e disciplinare del Capo dell’Ufficio. Gli stessi elementi valgono ad attrarre i giudici di pace nell’ambito di applicazione dell’AQ sul contratto a termine, a nulla rilevando il rinvio che esso contiene (analogamente ad altre fonti derivate) ai “diritti nazionali” per l’identificazione della nozione di “lavoratore”, imponendosi agli Stati comunque una nozione autonoma e uniforme di lavoratore onde preservare l’effetto utile delle norme di diritto dell’UE.

Se la natura di lavoratori subordinati dei giudici onorari non pare dunque più revocabile in dubbio, più articolata e problematica è la risposta della Corte di giustizia in merito al secondo profilo sopra richiamato, attinente alla comparabilità tra magistrati onorari e togati ed alla possibile giustificazione di disparità di trattamento a sfavore dei primi. Su questo piano, infatti, l’argomentazione della Corte si fa meno lineare ed appare non scevra da elementi di ambiguità. L’equiparabilità con i giudici professionali si ricaverebbe dalla sussistenza di una pluralità di elementi (8, puntualmente elencati dalla Corte) relativi al tipo di attività svolta ed in parte sovrapponibili agli “indici” della subordinazione. Resta però la possibilità di considerare se la minor complessità delle cause trattate dai giudici di pace e la loro esclusione dagli organi collegiali non possa giustificare una diversa conclusione: valutazione di fatto che la Corte lascia al giudice nazionale. Analogamente, ai giudici nazionali è rimessa la valutazione in merito alla possibile esistenza di ragioni oggettive che giustifichino disparità di trattamento tra le due magistrature, sulla base dell’assunto che “sebbene le differenze tra le procedure di assunzione dei giudici di pace e dei magistrati ordinari non impongano necessariamente di privare i giudici di pace di ferie annuali retribuite corrispondenti a quelle previste per i magistrati ordinari, resta comunque il fatto che tali differenze e, segnatamente, la particolare importanza attribuita dall’ordinamento giuridico nazionale e, più specificamente, dall’articolo 106, paragrafo 1, della Costituzione italiana, ai concorsi appositamente concepiti per l’assunzione dei magistrati ordinari, sembrano indicare una particolare natura delle mansioni di cui questi ultimi devono assumere la responsabilità e un diverso livello delle qualifiche richieste ai fini dell’assolvimento di tali mansioni”. E’ dunque sotto il profilo della possibile differenziazione di trattamenti (e non già al fine di escludere la subordinazione) che i giudici europei riconoscono la residua rilevanza dei principi costituzionali sanciti dall’art. 106 Cost.; in ciò raccordandosi con la sentenza Motter (causa C-466/17) nella quale analoghe considerazioni sono valse a valorizzare il principio del concorso pubblico di cui all’art. 97 comma 3 Cost.  

I principi enunciati dalla Corte di giustizia possono apparire di difficile declinazione ed aprono problematici scenari se si considera una loro possibile applicazione case by case da parte dei giudici nazionali (scenari che si sono già in parte concretizzati nella giurisprudenza di merito successiva alla sentenza UX). Tuttavia il discorso cambia se si assume il legislatore come interlocutore dei giudici europei. Pur con i margini di incertezza che i richiamati principi giurisprudenziali lasciano aperti, la direzione da intraprendere per conformare il nostro ordinamento ai vincoli di diritto dell’UE appare chiara. Ed è una direzione obbligata, se si vuole evitare il rischio di una ulteriore e più ampia condanna della Corte di giustizia. Alla sentenza UX si è infatti affiancata la procedura di infrazione attivata dalla Commissione europea lo scorso 15 luglio, con la quale vengono sollevate censure sulla vigente disciplina dettata dal d.lgs. 116/17 sia in merito alla violazione del principio di non discriminazione sancito dalle direttive sul contratto a termine e sul part – time e sia in merito alla violazione degli standard di tutela dettati dalle direttive di armonizzazione (in specie, relativi, oltre alle ferie, ai limiti massimi di orario, all’indennità di maternità ed all’abuso nel ricorso ai contratti a termine). 

Non è necessario entrare nel merito delle singole contestazioni avanzate dalla Commissione per concludere come sia ormai doverosa una riforma dello status dei giudici onorari che parta dal loro riconoscimento quali lavoratori subordinati. Il che, naturalmente, non significa configurare un’equiparazione con lo statuto dei magistrati ordinari, costituzionalmente inammissibile e, come detto, comunque non imposta dal diritto dell’UE. Si tratta di definire uno statuto speciale per questa particolare tipologia di lavoratori “pubblici”, fondato su contratti di lavoro subordinato in regime di part-time, con precipue caratteristiche di flessibilità dell’orario; nonché di riconoscere, a chi ha svolto per anni e continuativamente la propria attività in un quadro di assenza pressoché totale di tutele, il diritto ad un risarcimento rispettoso dei canoni di adeguatezza richiesti dal diritto dell’UE.

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