Mariangela Zito
Avvocata del Foro di Roma e Dottoranda in Diritto del Lavoro, Università ‘G. d’Annunzio’ di Chieti-Pescara
14 Aprile 2021
In questi giorni, ha fatto il giro del mondo il tweet dell’infermiere Victor Aparicio dell’ospedale Gregorio Marañon di Madrid, il quale ha pubblicato sul social network due foto, scattate a distanza di un anno, accompagnate dalla seguente didascalia: Soy enfermero de Uci. Un año separan estas dos imágenes. Creo es evidente el cambio exterior. No os imagináis el interior. [Sono un infermiere dell’unità di terapia intensiva. Un anno separa queste due foto. È evidente il cambiamento esteriore. Non immaginate quello interiore]
Gli operatori sanitari, oltre ad essere esposti ai rischi tipici dell’ambiente di lavoro nel quale operano (rischi fisici, chimici, biologici, organizzativi) sono esposti a situazioni di rischio psichico, legate a fattori individuali e di organizzazione del lavoro, a cui si aggiungono quelli sociali e culturali, se si pensa che il settore sanitario e assistenziale ha come caratteristica quella di occupare in gran parte personale femminile. Si tratta delle cosiddette “professioni di aiuto” (per l’area sanitaria: medici, psicologi, psicoterapeuti, tecnici sanitari, infermieri, ecc.), notoriamente esposte ai rischi da stress lavoro correlato in ragione delle attività lavorative finalizzate a rispondere quotidianamente ai bisogni di quanti si rivolgono a loro per un aiuto professionalmente qualificato.
Le varie forme di stress lavoro correlato rappresentano dei rischi veri e propri per la salute mentale e fisica degli operatori sanitari e meritano di essere gestiti come qualsiasi altro rischio per la salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro. Il COVID-19 ha indubbiamente inasprito problematiche già esistenti in questo settore, puntando il faro sulle falle del sistema sanitario pubblico arretrato dalle politiche di austerità attuate nell’ultimo decennio. Come conseguenza dello scenario emergenziale, gli operatori dell’area sanitaria si trovano ad affrontare contesti professionali e personali caratterizzati da stress, burnout, molestie e violenze, disagio e disturbi mentali, che inevitabilmente si riflettono sulla qualità e sulla sicurezza delle cure e delle prestazioni fornite.
Nel Rapporto ISS COVID-19 n. 22/2020 del 7 maggio, dal titolo “Indicazioni ad interim per la gestione dello stress lavoro-correlato negli operatori sanitari e socio-sanitari durante lo scenario emergenziale SARS-COV-2”, l’Istituto Superiore di Sanità ha ricordato come gli operatori sanitari si siano trovati a dover “affrontare una serie di attività, quali la riorganizzazione dei servizi e delle procedure professionali, andando incontro a diverse situazioni a rischio biologico. Si sono trovati quindi a sperimentare contesti di stress e disagio personale”. La pandemia da COVID-19 ha, inoltre, “reso particolarmente difficile la messa in atto delle usuali strategie di gestione dei problemi, sia a livello organizzativo/strutturale che individuale, e le dimensioni del fenomeno e le tipologie dei bisogni dei malati COVID-19 hanno coinvolto maggiormente alcune categorie di operatori sanitari, con limitata possibilità di sostituzione, risoluzione e turnazione”. Nel documento, vengono fornite delle indicazioni operative “per la prevenzione dello stress e per la predisposizione di interventi mirati alla protezione fisica e psicologica degli operatori di area sanitaria e socio-sanitaria”.
In un contesto del genere è essenziale che vengano adottate delle misure di salute e sicurezza sul lavoro, sia a breve che a lungo termine per ridurre o eliminare il rischio da infezione, oltre che i rischi psicosociali.
Tra le misure a breve termine sono contemplati i controlli amministrativi (ad esempio la possibilità di prevedere dei test di screening preventivi per gli operatori sanitari), i controlli tecnici (come l’utilizzo di barriere tra l’operatore e il paziente per ridurre il rischio di esposizione all’infezione) e l’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale (i DPI, la cui disponibilità contribuisce senz’altro a ridurre l’ansia causata dal rischio di essere contagiati). A queste si aggiungono – con riflessi specifici sulla prevenzione dei rischi psicosociali – la formazione degli operatori, una migliore organizzazione del lavoro e l’accesso ai servizi supporto psicologico, nonché la classificazione del COVID-19 come malattia professionale, a cui consegue il riconoscimento di prestazioni economiche in favore dei lavoratori colpiti che, in un certo senso, dovrebbero contribuire a ridurre il cd. stress finanziario. L’Italia ha riconosciuto il COVID-19 come infortunio sul lavoro, con la conseguente attivazione della tutela (indennitaria) INAIL per tutti i contagiati nell’ambiente di lavoro o a causa dello svolgimento dell’attività lavorativa. Molti altri Paesi dell’UE si sono mossi in tal senso (ad esempio, in Spagna e in Belgio l’infezione da COVID-19 viene qualificata come malattia professionale, mentre in Danimarca viene considerato infortunio sul lavoro) ma la diversità delle politiche e legislazioni nazionali evidenziano la necessità di stabilire a livello europeo dei principi comuni per il riconoscimento dell’infezione da COVID-19 come malattia professionale.
Una risposta a lungo termine ai rischi psicosociali e da stress post traumatico dovrebbe concentrarsi: sulla previsione di piani di prevenzione di questa tipologia specifica di rischi, sulla revisione delle modalità di organizzazione del lavoro nel settore sanitario e sulla previsione di solidi piani nazionali per la salute pubblica e per la salute mentale pubblica, se si considera che i rischi psicosociali e da stress lavoro correlato, per questa categoria di lavoratori e lavoratrici, continueranno a produrre effetti man mano che altri tipi di situazioni andranno a scemare, trasformandosi in disturbi più strutturati nel corso del tempo. E’, quindi, necessario ed urgente la messa in atto di misure psicologiche e di supporto coerenti e a lungo termine per promuovere e proteggere il benessere degli operatori sanitari. L’Ordine degli Psicologi del Piemonte ha realizzato uno studio testando 4.550 professionisti sanitari di tutta la Regione rispetto ai problemi psicologici conseguenti alla pandemia. I risultati: 1 operatore sanitario su 2 ha manifestato sintomi rilevanti di depressione, ansia e sintomi post traumatici da stress. In questo filone di interventi propositivi si inserisce il Protocollo nazionale, siglato dal Dipartimento di medicina epidemiologia e igiene del lavoro e ambientale (Dimeila) dell’Inail e il Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi (Cnop), finalizzato a identificare gli strumenti metodologici utili a fornire supporto agli operatori sanitari nella gestione dello stress e del malessere crescente legato all’emergenza. Si tratta di un’iniziativa interessante poiché promuove una procedura nazionale per l’attivazione, a livello locale, di task force di psicologi nelle strutture sanitarie. Purtroppo, il Protocollo allo stato attuale è pressoché inattuabile per carenza di psicologi da impiegare nei servizi di supporto e sostegno psicologico e psicosociale.
Tuttavia, una risposta alla impellente necessità di aiutare le professioni sanitarie fortemente stressate dall’emergenza epidemiologica ancora in atto, il Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi (Cnop) ha siglato con la Federazione nazionale degli Ordini dei Tecnici sanitari di radiologia medica e delle professioni sanitarie tecniche, della riabilitazione e della prevenzione (FNO TSRM e PSTRP) un Protocollo di intesa finalizzato alla previsione di una convenzione per l’accesso alle prestazioni psicologiche nel mercato libero professionale, con tariffe calmierate, in favore sia degli iscritti agli albi, che dei loro familiari o conviventi. Alla base dell’iniziativa congiunta c’è un principio etico e di colleganza che spinge il professionista sanitario ad essere attento al benessere fisico, psichico e relazionale dei colleghi al fine di prevenire i rischi da stress lavoro correlato o extra lavorativi che, se non eliminati, possono incidere inevitabilmente sulla qualità dell’agire professionale.
Come accennato all’inizio, le donne rappresentano la maggioranza degli operatori sanitari in tutto il mondo. Secondo un’analisi di 104 paesi condotta dall’Organizzazione mondiale della sanità, circa il 70% della forza lavoro sanitaria globale è composta da donne, le quali hanno anche la responsabilità di prendersi cura della famiglia. Eppure, la legislazione in materia di salute e sicurezza è disattenta alla questione di genere (EUOSHA 2014). La legislazione europea non contempla la differenza tra i pericoli e i rischi a cui le donne e gli uomini sono esposti nella prevenzione e gestione dei rischi lavorativi e al fine ridurre/eliminare i rischi psicosociali. Auspicando l’approvazione di un’apposita Direttiva europea che vincoli gli Stati membri all’adozione di misure obbligatorie ed effettive in tema di prevenzione e gestione dei rischi psicosociali, l’Italia ha ratificato – con la legge n. 4 del 15 gennaio 2021 – la Convenzione OIL 190 sull’eliminazione delle molestie e della violenza sui luoghi di lavoro, adottata dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro, insieme alla Raccomandazione 206, nel 2019. La Convenzione prevede l’inclusione della violenza e delle molestie – nonché dei rischi correlati – nella gestione della salute e della sicurezza sul lavoro, ampliando il novero dei rischi psicosociali; la valutazione dei rischi relativi alla violenza e alle molestie, con la partecipazione dei lavoratori e delle lavoratrici e dei rispettivi rappresentanti, e l’adozione di misure per prevenirli e tenerli sotto controllo; la previsione di attività a sostegno delle persone che hanno subito violenza o molestie.