Chiara Vannoni
Avvocato giuslavorista, già Consigliera di Parità per la Città Metropolitana di Milano
15 dicembre 2021
Notizia recente (e fugacemente apparsa sui quotidiani) è quella relativa all’approvazione della Legge 162/2021, fresca di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e proposta, enfaticamente, come “legge sulla parità salariale” dai mezzi di informazione che se ne sono occupati.
Accingendomi a leggere il testo della Legge (che introduce modifiche al Codice delle Pari Opportunità, D.Lgs. 198/2006), mi attendevo quindi una rivoluzione copernicana in materia, o quantomeno l’enunciazione di nuovi principi e criteri volti ad affrontare (e risolvere) il dibattutissimo problema del gender pay gap.
Tanta è quindi stata la mia sorpresa, di fronte a una legge che in realtà nulla dice, direttamente, sul tema della parità salariale, quanto piuttosto mira ad introdurre comportamenti orientati nella direzione della parità salariale, prevendendo specifici sgravi contributivi (una sorta di premialità) per le aziende che otterranno la c.d. “certificazione di parità”, oltre ad introdurre importanti integrazioni normative alle casistiche e fattispecie discriminatorie.
La Legge 162 infatti non interviene direttamente sul tema della parità retributiva, che peraltro è principio radicato a livello costituzionale nel nostro ordinamento; l’ambito di intervento della Legge 162 è invece – come è già stato giustamente notato da Stefania Scarponi nel suo intervento – relativo all’ampliamento della casistica delle condotte discriminatorie, e ciò al fine di creare condizioni di lavoro il più paritarie possibili.
Il legislatore prende atto di un contesto lavorativo caratterizzato da invecchiamento della popolazione (in senso generale: sia della popolazione attiva, che dell’avanzamento dell’aspettativa di vita e della presenza, quindi, di un crescente numero di anziani pensionati), e quindi del fatto per cui maggiori necessità di cura, personale e familiare, possano rappresentare (e di fatto già rappresentano) un rischio elevato di discriminazioni, laddove anche una variazione oraria, o di sede, o di turno possono di fatto determinare un ostacolo all’attività lavorativa; ovvero, di contro, impedire proprio quella funzione essenziale di cura, ancora quasi esclusivamente in capo alle donne lavoratrici, che non si esaurisce con la maternità, ma che si ripresenta in una fase successiva del rapporto di lavoro, in ragione delle necessità di assistenza a genitori o familiari anziani.
Le modifiche introdotte in tema di discriminazione vanno, certamente, nella direzione giusta, comprendendo esplicitamente quali condotte discriminatorie tutte quelle che, incidendo sull’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro, determinino situazioni di svantaggio per taluni lavoratori, in ragione del genere di appartenenza ovvero dell’età, delle esigenze di cura, della gravidanza e maternità (o paternità).
Le condizioni di svantaggio sono affiancate, nel nella previsione del nuovo comma 2bis dell’art. 25 del Codice delle Pari Opportunità, dalla limitazione che le modifiche organizzative possono portare rispetto alla partecipazione alla vita o alle scelte aziendali, o all’accesso ad avanzamenti di carriera il pensiero quindi corre immediatamente all’alternativa, ancora presente culturalmente, che richiede di scegliere tra famiglia e carriera).
La norma, quindi, si adegua al vissuto quotidiano di tante donne lavoratrici: pur essendo vero che la giurisprudenza ha, in taluni casi, riconosciuto come discriminazione indiretta quella della madre che vedeva ostacolato il lavoro, con modifiche dell’orario ingiustificate, a fronte della fruizione di permessi per l’assistenza del figlio, è anche vero che la canonizzazione di tali comportamenti come discriminatori potrà garantire una migliore tutela delle donne lavoratrici, anche in giudizio.
Negli ultimi quattro anni, fino al maggio scorso, ho avuto l’onore e l’onere di ricoprire il ruolo di Consigliera di Parità della Città Metropolitana di Milano.
La figura della Consigliera di Parità, prevista per legge a tre “livelli” (nazionale, regionale e territoriale – ex provinciale) svolge “funzioni di promozione e di controllo dell’attuazione dei principi di uguaglianza di opportunità e di non discriminazione tra donne e uomini nel lavoro”, agendo anche quali pubblici ufficiali; è tenuta alla presentazione di un rapporto annuale rispetto all’attività svolta e, ha l’obbligo istituzionale di intervento in giudizio nei casi di discriminazione
In ragione di quel ruolo sono stata quindi molte volte chiamata ad affrontare e discutere la tematica del gender gap e, soprattutto, delle enormi difficoltà che le donne incontrano ancora sul posto di lavoro, sia in termini retributivi che in termini di conciliazione vita lavoro.
Queste problematiche, peraltro, lungi dall’essere di pronta risoluzione, risultano addirittura aggravate dalle conseguenze della pandemia da Covid-19: molteplici sono le ricerche e gli studi che hanno evidenziato come il peso della cura, dell’organizzazione familiare e della didattica a distanza, resa necessaria dal marzo 2020, abbiano gravato sul lavoro femminile, con conseguente inasprimento delle disuguaglianze già presenti.
Il nuovo approdo legislativo, che rappresenta un importante passo avanti nella lotta alle discriminazioni, però, non è accompagnato in alcun modo da un ripensamento rispetto alle figure delle Consigliere Territoriali di Parità, che pure sono direttamente coinvolte nella promozione della parità di genere e che hanno anche compiti e funzioni di tutela in giudizio (pensiamo agli interventi ad adiuvandum, o alle azioni dirette su mandato della lavoratrice).
Purtroppo, infatti, le Consigliere Territoriali (delle Città Metropolitane, soprattutto), operano in condizioni pressochè di volontariato, a dispetto delle appunto importantissime e rilevantissime funzioni e attività chieste loro: i permessi per lo svolgimento delle attività sono infatti solo “eventualmente retribuiti”, così come l’indennità mensile è lasciata alla disponibilità finanziaria dell’ente di riferimento.
Se da un lato, quindi, l’impianto normativo è sempre più affinato nella lotta alle discriminazioni di genere (e rispetto all’obiettivo di colmare il divario retributivo), dall’altro è lo stesso Codice delle Pari Opportunità a prevedere, tra le righe, che un importante ruolo collettore delle discriminazioni sia di fatto rimesso al volontariato delle singole Consigliere.
Tale divario è ancora più irragionevole, e odioso, se si pensa alle competenze specifiche in materia antidiscriminatoria che sono richieste alle Consigliere: è quindi, paradossalmente, cristallizzata ancora la prassi che vuole il lavoro femminile, anche altamente qualificato, scarsamente retribuito.
Trovo quindi necessario un ripensamento, da parte del legislatore, del ruolo delle Consigliere, a cui tante lavoratrici si appellano per trovare soluzioni dirette ed immediate proprio a quelle situazioni di discriminazione strisciante che ostacolando la cura familiare, rende di fatto inevitabile la rinuncia al lavoro.
Purtroppo, però, è lo stesso legislatore a ostacolare il lavoro delle figure che per prime, sul campo, potrebbero individuare concreti rimedi.