La patata bollente della magistratura onoraria continua a rimpallare

Gionata Cavallini

Dottore di ricerca in Diritto del lavoro, Università degli Studi di Milano. Avvocato giuslavorista del foro di Milano.

12 gennaio 2022

L’impressione è quella di una partita di ping pong in cui, dopo una prima fase di placidi rimpalli, si comincia a registrare un’accelerazione esponenziale.

Da qualche anno a questa parte il dossier della magistratura onoraria viaggia tra giurisdizioni ordinarie ed amministrative, corti superiori nazionali e sovranazionali, Commissione europea e tavoli governativi, nell’affannosa – e forse impossibile – ricerca di un punto di equilibrio.

Da ultimo si segnalano (e si esamineranno meglio a breve) un’ordinanza di remissione alla Corte costituzionale emessa il 29 novembre scorso dal Tribunale di Brescia, che dubita della legittimità della disciplina della l. n. 374/1991, nella parte in cui consente di rinnovare sostanzialmente sine die gli incarichi a termine, per violazione della direttiva 1999/70/CE, nonché il recentissimo emendamento X2 all’art. 196 del DDL Bilancio 2022-2024, che vorrebbe introdurre un peculiare meccanismo di stabilizzazione (recte, di “sanatoria”) delle posizioni dei magistrati onorari italiani, già molto contestato dai diretti interessati.

La problematica, oltre che per la sua rilevanza teorica, ha importanti ricadute pratiche, posto che riguarda un bacino di persona (circa 5.000) non poi così esiguo se rapportato ad altre categorie di lavoratori a rischio di “invisibilità”, ben più noti anche al grande pubblico (in primis i rider).

Il paragone con i rider, già svolto anche da un altro Socio di questa Associazione ben più ferrato sul tema (B. Caruso, Ancora sui magistrati onorari, quale tutela?), pare peraltro azzeccato al lettore il cui occhio cade sui numeri, se è vero che la l. n. 374/1991 (art. 11, commi 3-bis e 3-ter) prevede per l’emissione di alcune tipologie di provvedimenti civili e penali, come i decreti ingiuntivi, il diritto a un’indennità (di Euro 10,33 lordi), non così diversa, nello schema compensatorio e nell’importo, ai vituperati cottimi della gig economy.

Non solo, ma a leggere alcuni passaggi di recenti sentenze in materia, che molto insistono sulla natura puramente “onorifica” dei relativi incarichi, tornano in mente le parole dei manager di Foodora i quali nell’autunno del 2016 avevano quasi canzonato i fattorini con la sfortunata replica che il loro non era un lavoro ma «un’opportunità per chi ama andare in bici, guadagnando anche un piccolo stipendio».

Del resto, a chi voglia riproporre nel 2021 la tradizione romanistica dell’honorarium per cui le prestazioni di natura intellettuale esulano da rapporti sinallagmatici di scambio (inter advocatum et clientulum non potest dici locatio, insegnava Bartolo giusto sette secoli or sono), si ricorda che già Barassi aveva rilevato il suo definitivo superamento («noi non sappiamo se ai tempi di Pothier era usanza offrire agli avvocati, a guisa di onorario, il Thesaurus di Meermann: è certo che oggi si usa dar loro dei biglietti di banca»).

Fatte queste premesse di contesto, occorre rilevare che alcuni punti fermi li aveva fissati la sentenza Ux della Corte di Giustizia (16 luglio 2020, C-658/18) la quale, senza particolari remore nel toccare nervi scoperti dell’ordinamento interno, aveva in sostanza affermato che rientra nella nozione europea di lavoratore – e gode delle relative tutele previste dal diritto eurounitario – chiunque «svolge prestazioni reali ed effettive, che non sono puramente marginali né accessorie, e per le quali percepisce indennità aventi carattere remunerativo».

Anche sulla base di tale pronuncia, una parte della giurisprudenza nazionale aveva cominciato ad accogliere le domande di accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro dei magistrati onorari e/o comunque del loro diritto a un trattamento economico almeno “in linea”, in via parametrica, con quello del magistrato ordinario di prima nomina, nonché il risarcimento del danno da illegittima reiterazione dei contratti a termine (particolarmente ricche le motivazioni di Trib. Vicenza 29 dicembre 2020, n. 343).

Mentre altra giurisprudenza, meno sensibile al tema, si perdeva in un imbarazzante rimpallo in materia di giurisdizione (con sentenze amministrative e civili pronte a declinarsi a vicenda il potere – o il dovere – di decidere: v. SS. UU. n. 21986/2021; Tar Lazio n. 9484/2021), scendeva in campo anche la Commissione europea, che a luglio 2021 inviava all’Italia una lettera di costituzione in mora rilevando come la legislazione nazionale applicabile ai magistrati onorari non fosse pienamente conforme al diritto del lavoro dell’UE, assegnando un termine di due mesi per porvi rimedio.

Da qui l’interessamento del Ministero della Giustizia e l’emendamento X2 all’art. 196 del Disegno di Legge di Bilancio 2022-2024, che vorrebbe consentire una qualche forma di stabilizzazione/sanatoria, da effettuarsi previa “procedura valutativa”, dei quasi 5.000 interessati, con un indennizzo per coloro che non la superassero, prevedendo però nel contempo un vero e proprio obbligo di partecipazione a pena di decadenza dall’incarico (ancorché gli stessi siano stati in molti casi già confermati sino al 2024) e soprattutto una (in effetti clamorosa) rinuncia preventiva ad azioni giudiziarie di qualsiasi genere (si legge nell’emendamento che «la domanda di partecipazione alle procedure valutative di cui al comma 3 comporta rinuncia ad ogni ulteriore pretesa di qualsivoglia natura conseguente al rapporto onorario pregresso, salvo il diritto all’indennità di cui al comma 2 in caso di mancata conferma»).

Insomma, una “tombale” preventiva ex lege (un’”abiura” l’ha definita la Consulta della Magistratura Ordinaria), che porrebbe – ove approvata – non pochi problemi di legittimità costituzionale (in primis in riferimento all’art. 24 Cost. e, almeno per le cause già pendenti, anche ai principi anche sovranazionali in materia di “giusto processo”: art. 111 Cost.; art. 6 Cedu, art. 47 CDFUE).

Tali profili di illegittimità costituzionale si aggiungerebbero del resto a quelli appena sollevati dal Tribunale di Brescia (ordinanza del 29 novembre 2021), che ha rimesso alla Corte costituzionale la questione relativa alla legittimità costituzionale «dell’art. 7 della legge n. 374 del 1991, nella parte in cui consente il rinnovo degli incarichi per 18 anni, e dell’art. 1 del D. Lgs. n. 92 del 2016, nella parte in cui consente un ulteriore incarico di durata quadriennale, così da determinare una reiterazione abusiva degli incarichi, e ciò per contrasto con l’art. 117 co. 1 Cost., in riferimento alla clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, alla quale ha dato attuazione la direttiva 1999/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999».

Contrariamente al Giudice vicentino, che aveva ritenuto di poter pronunciare condanna al risarcimento del danno c.d. comunitario anche senza necessità di un sindacato di legittimità costituzionale delle norme in materia di reiterazione, il Giudice bresciano ha ritenuto necessario un preventivo scrutinio della Corte. Una cautela forse eccessiva, posto che la figura del danno comunitario è ormai sufficientemente recepita nell’ordinamento interno, ancorché certamente comprensibile data la delicatezza del tema.

In attesa che i lunghi tempi della giustizia italiana facciano il proprio corso, e di conoscere le determinazioni politiche del legislatore per quanto concerne il futuro, resta a chi scrive l’impressione, certamente viziata dall’esperienza personale e professionale, che troppo spesso il principio concorsualistico venga invocato – magari a sproposito da chi non ha mai assicurato né imparzialità né buon andamento (nel vasto modo delle in house vi sarebbero buoni esempi) – quale insopportabile alibi per fare spallucce davanti a gravi e palesi violazioni dei diritti di chi lavora (ovvero, per usare le parole della Corte di Giustizia, di chi ha reso prestazioni reali ed effettive, né marginali né accessorie, percependo indennità a carattere remunerativo).

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