Indipendenza della magistratura e clausola di non regresso: un commento a Repubblika, Grande Sezione 20 aprile 2021 (causa C–896/19)

Valeria Piccone

Magistrata Consigliere presso la Corte di Cassazione e componente del Consiglio consultivo dei giudici europei

23 Aprile 2021

Nella più recente “puntata” della saga polacca, la decisione adottata dalla Grande Sezione della Corte di giustizia il 2 marzo scorso (causa C- 824/18, AB)la Corte assegnando un ruolo nodale all’obbligo di leale collaborazione che grava sui giudici nazionali ai sensi dell’art. 4 par. 3 TUE ha affermato due principi – non del tutto   inediti – in tema di indipendenza del potere giurisdizionale.

La Corte, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità, in termini di impermeabilità, dei giudici nominati sulla base delle delibere della Krajowa Rada Sadownictwa  (la KRS, il Consiglio nazionale della Magistratura), ha infatti sottolineato che se il giudice del rinvio fosse giunto alla conclusione che l’adozione delle modifiche legislative operate in Polonia in ordine alle nomine dei magistrati del 2018 è avvenuta in violazione del diritto dell’Unione, il principio del primato di tale diritto imporrebbe a quest’ultimo giudice di disapplicare tali modifiche, siano esse di origine legislativa o costituzionale, e di continuare ad esercitare la competenza, di cui era titolare, a pronunciarsi sulle controversie di cui era investito prima dell’intervento di dette modifiche.

Inoltre, l’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE osta a modifiche legislative come quelle intervenute appunto nel 2018, qualora risulti che siano tali da suscitare dubbi legittimi nei singoli quanto all’impermeabilità dei giudici così nominati rispetto a elementi esterni e quanto alla loro neutralità rispetto agli interessi contrapposti, e da condurre quindi a una mancanza di apparenza d’indipendenza o di imparzialità di detti giudici tale da ledere la fiducia che la giustizia deve ispirare ai singoli in una società democratica e in uno Stato di diritto.

Nel caso Repubblika, Grande Sezione del 20 aprile scorso (causa C–896/19) la domanda di pronuncia pregiudiziale verteva sull’interpretazione proprio dell’articolo 19 TUE, nonchè dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (disposizione, quest’ultima, già al centro della decisione del 24 giugno 2019 nella causa C- 619/18).

La domanda era stata presentata nell’ambito di una controversia tra Repubblika, un’associazione, registrata come persona giuridica a Malta, il cui oggetto è promuovere la tutela della giustizia e dello Stato di diritto in detto Stato membro, e il Primo ministro, relativamente a un’azione popolare avente ad oggetto la conformità al diritto dell’Unione delle disposizioni della Costituzione di Malta che disciplinano la procedura di nomina dei giudici. 

A sostegno della sua domanda, Repubblika ha sostenuto che il potere discrezionale del Primo ministro di nominare i giudici, quale risulta dagli articoli 96, 96A e 100 della Costituzione, solleva dubbi quanto all’indipendenza di questi ultimi: il giudice del rinvio ha, quindi, ritenuto che, nel caso di specie, l’aspetto che meritava di essere esaminato dalla Corte, nell’ottica dell’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE e dell’articolo 47 della Carta, fosse il potere discrezionale che gli articoli 96, 96A e 100 della Costituzione conferiscono al Primo ministro nell’ambito della procedura di nomina dei giudici. 

Respinta l’istanza di procedimento accelerato, sottoposta la causa a trattamento prioritario in conformità all’articolo 53 e superate alcune questioni di procedibilità la Corte affronta come segue le questioni pregiudiziali oggetto di rinvio.

Essa sottolinea, in primo luogo, come già fatto nella nota icenda del giudici portoghesi, che l’ambito di applicazione ratione materiae dell’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE, riguarda i «settori disciplinati dal diritto dell’Unione», indipendentemente dalla situazione in cui gli Stati membri attuano tale diritto, ai sensi dell’articolo 51, paragrafo 1, della Carta (sentenze del 27 febbraio 2018, Associação Sindical dos Juízes Portugueses, C‑64/16, e del 2 marzo 2021, A.B. e a.,C‑824/18); tale requisito rileva indipendentemente dal fatto che gli Stati membri stiano o meno applicando il diritto dell’UE ai sensi dell’articolo 51 della Carta. 

Ciò significa, nella sostanza, che anche se l’art. 51 della Carta e l’art. 19 del Trattato non hanno lo stesso scopo ratione materiae, essi  servono entrambi a definire il modo in cui il sistema di protezione dei diritti umani fondamentali opera nell’Unione: mentre l’art. 51 mira a distribuire le responsabilità fra Unione e Stati membri in relazione alla protezione dei diritti fondamentali, l’art. 19 ha lo scopo di proteggere ‘l’architettura giudiziale’ su cui il sistema legale dell’Unione si fonda (in questi termini, K. Lenaerts, Making the Eu Charter of Fundamental Rights a reality for all: 10th Anniversary of the Charter Becoming Legally Binding, Keynote speech, 12 November 2019). 

Richiama, poi,  la Corte, la portata dell’art. 19, paragrafo 1, secondo cui ogni Stato membro deve segnatamente garantire che gli organi che fanno parte, in quanto «organi giurisdizionali» nel senso definito dal diritto dell’Unione, del suo sistema di rimedi giurisdizionali nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione e che, pertanto, possono trovarsi a dover statuire in tale qualità sull’applicazione o sull’interpretazione del diritto dell’Unione, soddisfino i requisiti di una tutela giurisdizionale effettiva, sottolineando come, all’uopo, l’art. 47 della Carta deve essere preso in considerazione ai fini dell’interpretazione dell’art. 19 par. 1, secondo comma TUE (sentenze del 14 giugno 2017, Online Games e a., C‑685/15 e 2 marzo 2021, A.B. e a. cit.). 

Ha, quindi, risposto alla prima questione sottoposta dal giudice del rinvio affermando che l’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE deve essere interpretato nel senso che esso è applicabile in una causa in cui un giudice nazionale sia investito di un ricorso previsto dal diritto nazionale e diretto a che tale giudice si pronunci sulla conformità al diritto dell’Unione di disposizioni nazionali che disciplinano la procedura di nomina dei giudici dello Stato membro cui detto giudice appartiene. 

Ai fini dell’interpretazione di tale disposizione, deve essere debitamente preso in considerazione l’articolo 47 della Carta. 

Quanto alla seconda questione, mediante la quale il giudice del rinvio chiedeva, in sostanza, se l’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE debba essere interpretato nel senso che esso osta a disposizioni nazionali che conferiscono al Primo ministro dello Stato membro interessato un potere decisivo nel processo di nomina dei giudici, prevedendo al contempo l’intervento, in tale processo, di un organo incaricato, in particolare, di valutare i candidati ad un posto di giudice e di fornire un parere a tale Primo ministro, la Corte ricorda, in primo luogo che, sebbene l’organizzazione della giustizia negli Stati membri rientri nella competenza di questi ultimi, ciò non toglie che, nell’esercizio di tale competenza, gli Stati membri siano tenuti a rispettare gli obblighi loro incombenti in forza del diritto dell’Unione. 

Inoltre, come previsto dall’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE, spetta agli Stati membri prevedere un sistema di rimedi giurisdizionali e di procedimenti che garantisca un controllo giurisdizionale effettivo nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione, nonché garantire che gli organi giurisdizionali rientranti in detto sistema e che possono trovarsi a dover statuire sull’applicazione o sull’interpretazione del diritto dell’Unione soddisfino i requisiti di una tutela giurisdizionale effettiva.  

In tale contesto, l’indipendenza dei giudici degli Stati membri riveste un’importanza fondamentale per l’ordinamento giuridico dell’Unione sotto diversi profili (sentenza del 9 luglio 2020, Land Hessen, C‑272/19): essa è infatti essenziale per il buon funzionamento del sistema di cooperazione giudiziaria costituito dal meccanismo di rinvio pregiudiziale di cui all’articolo 267 TFUE, in quanto tale meccanismo può essere attivato unicamente da un organo, incaricato di applicare il diritto dell’Unione, che soddisfi, segnatamente, il suddetto criterio di indipendenza (v., in particolare, sentenza del 21 gennaio 2020, Banco de Santander, C‑274/14). 

Peraltro, osservano i giudici di Lussemburgo, “il requisito di indipendenza degli organi giurisdizionali, intrinsecamente connesso al compito di giudicare, costituisce un aspetto essenziale del diritto fondamentale a una tutela giurisdizionale effettiva e a un equo processo previsto all’articolo 47 della Carta, che riveste un’importanza cardinale quale garanzia della tutela dell’insieme dei diritti derivanti al singolo dal diritto dell’Unione e della salvaguardia dei valori comuni agli Stati membri enunciati all’articolo 2 TUE e, segnatamente del valore dello Stato di diritto” (sentenze del 26 marzo 2020, Riesame Simpson/Consiglio e HG/Commissione, C‑542/18 e del 2 marzo 2021, A.B. e a. C‑824/18). 

Pertanto, mentre l’articolo 47 della Carta contribuisce al rispetto del diritto a una tutela giurisdizionale effettiva di ogni singolo che si avvalga, in una determinata fattispecie, di un diritto che gli deriva dal diritto dell’Unione, l’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE mira, dal canto suo, a garantire che il sistema di rimedi giurisdizionali istituito da ogni Stato membro garantisca la tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dall’Unione. 

A questo punto la Corte richiama la sopra mentovata giurisprudenza sull’esistenza di regole, relative in particolare alla composizione dell’organo giurisdizionale, alla nomina, alla durata delle funzioni nonché alle cause di astensione, di ricusazione e di revoca dei suoi membri, che consentano di fugare qualsiasi legittimo dubbio che i singoli possano nutrire in merito all’impermeabilità di detto organo nei confronti di elementi esterni e alla sua neutralità rispetto agli interessi contrapposti (sentenze del 19 settembre 2006, Wilson, C‑506/04, del 25 luglio 2018, Minister for Justice and Equality C‑216/18 PPU, e del 2 marzo 2021, A.B. e a. C‑824/18 cit.). E l’indipendenza dei giudici, da garantirsi in particolar modo nei confronti dei poteri legislativo ed esecutivo, deve porre gli stessi al riparo da interventi o da pressioni esterni che possano mettere a repentaglio la loro indipendenza. 

Si perviene, quindi, al nucleo della decisione che ruota intorno all’art. 2 TUE.

Nell’ordinanza dell’8 aprile 2020, causa C- 791/19, Commissione europea c. Repubblica di Polonia, la Corte aveva affermato che la circostanza che l’indipendenza del Sąd Najwyższy non fosse assicurata, poteva causare gravi danni all’ordinamento giuridico europeo e, pertanto, ai diritti che per gli individui derivano dal diritto dell’Unione e dai valori stabiliti dall’articolo 2 TUE, su cui è fondata l’Unione stessa e, in particolare, lo stato di diritto. 

Essa ribadisce, oggi, in Repubblika, che dall’articolo 2 TUE discende che l’Unione si fonda su valori, quali lo Stato di diritto, che sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata, in particolare, dalla giustizia. 

Nodale il link fra art. 2 e art. 19, che si rivela ancora più marcato rispetto al caso dei giudici portoghesi: evidenza la Corte, al riguardo, che la fiducia reciproca tra gli Stati membri e, segnatamente, i loro giudici, si basa sulla premessa fondamentale secondo cui gli Stati membri condividono una serie di valori comuni sui quali l’Unione si fonda, come precisato nel suddetto articolo.

Ne consegue che il rispetto da parte di uno Stato membro dei valori sanciti dall’articolo 2 TUE costituisce una condizione per il godimento di tutti i diritti derivanti dall’applicazione dei trattati a tale Stato membro. 

Come accennato, già nel caso dei giudici portoghesi la Corte aveva enfatizzato i valori espressi dall’art. 2 TUE quale fondamento dell’Unione includendo ovviamente fra questo il rispetto della rule of law cui l’art. 19 da concreta espressione nell’affidare la responsabilità di assicurare ‘the judicial review’ non solo alla Corte di giustizia ma anche ai giudici nazionali.

Questione cruciale è quella in base alla quale ogni Stato membro deve garantire che i propri giudici decidano all’interno del proprio sistema giudiziario nei settori disciplinati dal diritto dell’UE soddisfacendo i requisiti di garanzia di una efficace protezione giudiziaria, nell’ambito della quale va collocata l’indipendenza.

Uno Stato membro non può, quindi, modificare la propria normativa in modo da comportare una regressione della tutela del valore dello Stato di diritto, valore che si concretizza, in particolare, nell’articolo 19 TUE  (il richiamo è alla sentenza del 2 marzo 2021, A.B. e a).   

Gli Stati membri sono quindi tenuti a provvedere affinché sia evitata qualsiasi regressione, ecco il nuovo accento rispetto ai richiamati precedenti (semanticamente formulato in assonanza con le altre lingue, e, quindi, non regressione anziché non regresso) riguardo a detto valore, della loro legislazione in materia di organizzazione della giustizia, astenendosi dall’adottare qualsiasi misura che possa pregiudicare l’indipendenza dei giudici (il richiamo è, per analogia, alla sentenza del 17 dicembre 2020, Openbaar Ministerie  C‑354/20 PPU e C‑412/20 PPU).  

La Corte sottolinea di aver già dichiarato, in sostanza, che l’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE deve essere interpretato nel senso che osta a disposizioni nazionali nell’ambito dell’organizzazione della giustizia tali da costituire una regressione, nello Stato membro interessato, della tutela del valore dello Stato di diritto, in particolare delle garanzie di indipendenza dei giudici (v., sul punto, sentenze del 19 novembre 2019, A.K. e a. (C‑585/18, C‑624/18 e C‑625/18,  nonché del 2 marzo 2021, A.B. e a. più volte richiamata, C‑824/18).

Nel caso di specie, una serie di regole menzionate dal giudice del rinvio hanno indotto la Corte a reputare le stesse idonee a garantire l’indipendenza del Comitato per le nomine in magistratura nei confronti dei poteri legislativo ed esecutivo e, pertanto, la Corte ha concluso dichiarando che l’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE deve essere interpretato nel senso che esso non osta a disposizioni nazionali che conferiscono al Primo ministro dello Stato membro interessato un potere decisivo nel processo di nomina dei giudici, prevedendo al contempo l’intervento, in tale processo, di un organo indipendente incaricato, segnatamente, di valutare i candidati ad un posto di giudice e di fornire un parere a tale Primo ministro.

Appare abbastanza evidente, da questa pronunzia che si pone accanto alle richiamate vicende portoghese e polacca, aggiungendo un quid pluris, come la Corte di giustizia, (già stimolata in tal senso dalla Commissione, nonché dai giudici della Corte Suprema di Polonia) sia ormai opportunamente impegnata da protagonista nella battaglia per la garanzia del rispetto dei valori fondamentali dell’Unione. Emerge da questa giurisprudenza come il controllo sui valori fondamentali si stia trasformando in una sorta di controllo esterno rispetto agli ordinamenti nazionali che tendano a snaturarne i contorni. 

Tale controllo assume, dunque, un pronunciato rilievo costituzionale e limita in qualche modo l’obbligo dell’Unione di rispettare l’identità politica e costituzionale degli Stati membri, formulato dall’art. 4 par. 2 TUE. 

Alla luce della competenza esclusiva assegnata agli organi ed alle procedure previsti dall’art. 7 del Trattato, peraltro, il controllo della Corte di giustizia non può svolgersi direttamente sul rispetto dei valori formulati dall’art. 2 TUE, ma deve essere filtrato attraverso altre norme dei Trattati. 

Nel caso Repubblika come già in AK, l’elemento che ha consentito alla Corte di operare è stato l’art. 19, par. 1, comma 2, TUE, il quale incardina i giudici nazionali nell’ambito della funzione giudiziaria europea: posto che i giudici nazionali hanno il dovere di interpretare ed applicare il diritto europeo, una disciplina nazionale che ne mini l’indipendenza, pregiudicherà, altresì, l’esigenza di una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione. 

Tale ancoraggio trova, poi, il proprio naturale sviluppo, nell’art. 47 della Carta che sembra sempre più delinearsi come il core business delle più recenti ed avvertite decisioni della Corte di giustizia.

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