Commento alla sentenza della CGUE 13 ottobre 2022 (C-344/20) sulla politica di neutralità aziendale

Sonia Fernández Sánchez

Professoressa associata di Diritto del lavoro, Università di Cagliari

31 gennaio 2023

La sentenza della CGUE del 13 ottobre 2022 (C-344/20) sviluppa e chiarisce il pensiero del giudice europeo per quanto riguarda l’adozione di una politica di neutralità dell’impresa privata. Lo stesso AG ricorda che la richiesta di decisione pregiudiziale da parte del tribunale del lavoro belga “si inserisce direttamente nel solco delle sentenze G4S Secure Solutions (C-157/15), Bougnaoui e ADDH (C-188/15) e Wabe (C-804/18) relative alla discriminazione fondata sulla religione o sulle convinzioni personali ai sensi della direttiva 2000/78” (par. 1 delle Conclusioni).

1. Il caso

La richiesta di decisione pregiudiziale ha origine nel contesto di una controversia sorta, in Belgio, tra una lavoratrice di fede musulmana e una società cooperativa a responsabilità limitata la cui attività principale consiste nella locazione e nella gestione di alloggi popolari. La controversia ha avuto origine dal fatto che la società non ha preso in considerazione la candidatura della lavoratrice che aveva richiesto di poter svolgere, presso l’impresa, un tirocinio non retribuito della durata di sei settimane. La decisione della società è stata motivata dal fatto che la lavoratrice aveva manifestato la volontà di non rispettare la norma di neutralità adottata all’interno dell’impresa, cioè il divieto di indossare segni visibili politici, filosofici o religiosi, pretendendo di poter indossare il velo, così come imposto dal credo religioso professato.

Il regolamento adottato nell’impresa stabilisce che i lavoratori “si impegnano a rispettare la politica di rigorosa neutralità vigente all’interno dell’azienda” e ”non dovranno pertanto manifestare in alcun modo, né verbalmente, né con un particolare abbigliamento o in altro modo, le proprie convinzioni religiose, filosofiche o politiche, di qualsiasi tipo” (par. 16). Durante l’intervista preliminare, i responsabili dell’azienda, pur affermando l’opinione favorevole all’accoglimento della richiesta, avevano ribadito in maniera chiara l’obbligo del rispetto della norma adottata nell’impresa: in maniera altrettanto netta, la lavoratrice aveva dichiarato che non avrebbe trasgredito all’obbligo di portare il velo e che, pertanto, non avrebbe rispettato la regola di neutralità. 

Di fronte alla decisione dell’impresa di non accoglierla, la lavoratrice aveva proposto di poter realizzare il tirocinio indossando un altro tipo di copricapo. Tuttavia, anche in presenza di tale alternativa, l’impresa aveva mantenuto la propria decisione, negativa, in quanto all’interno delle installazioni aziendali non era permesso alcun copricapo, “che si trattasse di un cappello, di un berretto o di un velo” (par. 18). Da qui la decisone della lavoratrice di presentare ricorso, ritenendosi discriminata per motivi religiosi.

2. Questioni pregiudiziali

La CGUE, nel rispondere alla prima questione pregiudiziale – e cioè se i termini “religione o convinzioni” siano un solo e unico motivo di discriminazione ovvero si tratti di motivi diversi – afferma che la protezione contro la discriminazione prevista nella Direttiva 2000/78 comprende esclusivamente i motivi espressamente menzionati dall’art. 1 e, per tanto, non fa riferimento o non contempla altri fattori, quali le convinzioni politiche o sindacali, le convinzioni o preferenze artistiche, sportive, estetiche o altre ancora. Di conseguenza, l’eventuale protezione di tali fattori da parte di qualche Stato membro non deriva dalle disposizioni della norma europea. L’art. 1 deve interpretarsi, in conclusione, nel senso che i termini “religione e convinzioni” costituiscono uno solo e unico motivo di discriminazione, che comprende sia le convinzioni religiose sia quelle filosofiche o spirituali (par. 29).

Per quanto riguarda la seconda questione pregiudiziale, la Corte afferma che l’art. 8, c. 1, della Direttiva 2000/78 non osta che un organo giurisdizionale nazionale permetta, nell’ambito della ponderazione degli interessi divergenti, una maggiore rilevanza a quelli della religione o delle convinzioni personali rispetto a quelli risultanti, in particolare, dalla libertà d’impresa. In altri termini, gli Stati potrebbero riconoscere alla libertà di coscienza e di religione una protezione maggiore rispetto ad altre libertà, quali la libertà d’impresa di cui all’art. 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; tale maggior tutela produce effetti nella fase di valutazione della giustificazione di una discriminazione indiretta (par. 52). Sul margine di discrezionalità, la Corte stabilisce determinati limiti. Afferma, in primo luogo, che né gli Stati membri, né i giudici nazionali, possono scindere in vari motivi, ciascuno dei motivi di discriminazione elencati tassativamente all’art. 1 della Direttiva 2000/78 (par. 54). Siccome i motivi di discriminazione per religione o convinzioni ideologiche riguardano tutti i lavoratori allo stesso modo, un approccio segmentato avrebbe come conseguenza la creazione di sub-gruppi di lavoratori e potrebbe così minare il principio generale di uguaglianza e pari trattamento nel lavoro stabilito dalla direttiva 2000/78. Tale interpretazione non dovrebbe comportare una riduzione del livello di protezione contro la discriminazione per motivi religiosi o convinzioni religiose, visto che niente sembra opporsi a che gli organi giurisdizionali nazionali possano interpretare le disposizioni nazionali nel senso che, nell’ambito della ponderazione degli interessi divergenti tra un lavoratore e il suo datore di lavoro, le convinzioni filosofiche e spirituali debbano godere dello stesso livello di protezione che la religione o le convinzioni religiose.

La terza delle questioni pregiudiziali fa riferimento alla sussistenza, o meno, di una discriminazione diretta in presenza di una politica di neutralità aziendale che disponga un trattamento uguale a tutti i dipendenti. Anche in quest’occasione, la CGUE ribadisce quanto già enunciato dalla sentenza Wabe: una disposizione interna aziendale che vieti ai lavoratori di manifestare, verbalmente, attraverso l’abbigliamento o in qualsiasi altra forma, le proprie convinzioni religiose o filosofiche non costituisce – nei confronti dei lavoratori che pretendano di esercitare la loro libertà religiosa e di coscienza mediante l’uso visibile di un simbolo o di un capo di abbigliamento avente connotazioni religiose – discriminazione diretta “per motivi di religione o convinzioni”, alla sola condizione che tale disposizione venga applicata in maniera generale e indifferenziata (par. 42). La Corte, tuttavia, ribadisce che: 

(1) ogni organo giurisdizionale dovrà esaminare se la norma interna aziendale possa configurare disparità di trattamento indirettamente fondato sulla religione o sulle convinzioni, alla luce di quanto disposto dall’art. 2, c. 2, lett. b), della Direttiva 2000/78, ovverossia se il contenuto apparentemente neutro della norma possa determinare, di fatto, uno svantaggio particolare per le persone che professano una determinata religione o convinzione ideologica.

(2) dovrà tenersi conto del concetto di “finalità legittima imprenditoriale” nel senso che il datore di lavoro – secondo quanto ribadito dalla Corte – dovrà dimostrare l’esistenza di una necessità reale riguardo la “finalità legittima”. Con ciò, si intende incoraggiare la tolleranza, il rispetto e l’accettazione di un maggior grado di diversità tra le persone ed evitare che l’adozione di una politica di neutralità all’interno dell’impresa possa comportare un pregiudizio per i lavoratori che, in ottemperanza ai precetti della religione professata, siano obbligati ad un determinato abbigliamento (par. 41).

3. Intento del giudice belga con le questioni pregiudiziali

Sulla base delle questioni pregiudiziali, sembra evincersi che l’intento del giudice belga fosse quello di sollecitare la CGUE a ripensare la giurisprudenza delle precedenti sentenze in materia di esercizio del diritto di libertà religiosa nel posto di lavoro. La formulazione delle domande, infatti, lascia intendere che il giudice nazionale si attendesse da parte della CGUE un rafforzamento della protezione dell’esercizio del diritto di libertà religiosa, sia nel prenderlo in considerazione quale “criterio autonomo” e differente dalle “convinzioni”, sia nel riconoscere alla legislazione nazionale un margine di discrezionalità assai più ampio nella definizione di misure più favorevoli per la protezione della libertà religiosa rispetto a quanto previsto dalla direttiva 2000/78. 

Il giudice belga, esplicitamente ha dichiarato di presentare le questioni pregiudiziali in quanto la recente giurisprudenza europea in materia – nello specifico la sentenza G4S Secure Solutions – consente margini di dubbio. Tale sentenza “si sarebbe fondata sulla constatazione di un’applicazione generale ed indiscriminata della regola interna che vieta di indossare in modo visibile segni politici, filosofici o religiosi sul luogo di lavoro, ma non avrebbe escluso che, sulla base di elementi di cui non disponeva, l’applicazione di tale regola all’interessata potesse essere diversa dalla sua applicazione a qualsiasi altro dipendente. Poiché il dispositivo di tale sentenza non riproduce tale importante sfumatura, si porrebbe la questione se sussista ancora un margine di discrezionalità per il giudice nazionale o se quest’ultimo sia privato di ogni possibilità di valutare in concreto la comparabilità delle situazioni quando si tratta di esaminare il carattere discriminatorio di una regola interna di un’impresa privata che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro” (par. 21). In definitiva, il giudice belga si aspettava che la Corte potessi completare e precisare quanto contenuto nella più recente sentenza.

Il giudice belga, peraltro, sembra non aver chiaro se la CGUE nella sentenza G4S Secure Solutions – ma anche in quella Bougnaoui e ADDH (C-188/15) “abbia inteso istituire un solo criterio protetto, costituito dalle convinzioni religiose, dalle convinzioni filosofiche e dalle convinzioni politiche, cosicché non sarebbe necessario distinguere tra tali criteri”, in quanto “se la religione dovesse essere messa allo stesso livello delle convinzioni personali diverse da quelle religiose, ciò ridurrebbe significativamente l’ambito di ricerca della persona di riferimento ai fini dell’esame della comparabilità delle situazioni nel contesto della valutazione dell’esistenza di una discriminazione diretta” (par. 22). La conseguenza di tale teoria sarebbe l’ampliamento delle possibilità offerte dall’art. 8, paragrafo 1, della direttiva per regolamentare più ampliamente che in questa protezione del diritto di libertà religiosa e, concretamente, della persona che abitualmente indossa un simbolo religioso nel suo abbigliamento e che non è assunta perché si rifiuta a non indossarlo durante la prestazione di servizi. Questa tesi coincide con quanto affermato dall’AG nelle sue conclusioni.

4. Conclusioni dell’Avvocato Generale sul 1° comma dell’art. 8 della direttiva 2000/78 

Quanto alla seconda questione pregiudiziale presentata dal giudice belga, e sulla base della risposta offerta alla prima questione pregiudiziale, si tratta di stabilire di quale margine di discrezionalità dispongano gli Stati membri nell’adottare o mantenere in vigore disposizioni più favorevoli per la protezione del principio di parità di trattamento rispetto a quelle stabilite dall’art. 8, c. 1 della direttiva 2000/78. Nel rispondere al quesito, come detto, la CGUE prende le mosse dalla sentenza Wabe. Secondo la CGUE, gli Stati membri possiedono un ampio margine di discrezionalità nel prevedere misure idonee a migliorare la protezione del diritto di libertà religiosa; alla Corte europea, da parte sua, compete valutare se le misure adottate a livello nazionale siano “in principio giustificate e proporzionate”. La CGUE, tuttavia, precisa che il margine di discrezionalità riconosciuto agli Stati membri “non può estendersi fino a consentire a questi ultimi o ai giudici nazionali di scindere, in vari motivi, uno dei motivi di discriminazione elencati tassativamente all’articolo 1 della direttiva 2000/78, salvo metterne in discussione il testo, il contesto e la finalità e pregiudicare così l’effetto utile del quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro istituito da tale direttiva” (par. 54). Non si tratta di quanto auspicato dal giudice belga – evidentemente propenso a considerare la religione e le convinzioni quali motivi discriminatori diversi – ma la CGUE lapidariamente ribadisce che “l’esistenza di un criterio unico, che comprenda la religione e le convinzioni personali, non osta al raffronto tra i dipendenti animati da convinzioni religiose e quelli animati da altre convinzioni personali, né a quelli tra i dipendenti animati di convinzioni religiose diverse” (par. 59). 

La Corte, in conclusione afferma che l’art. 1 della direttiva 2000/78 “deve essere interpretato nel senso che esso osta a che disposizioni nazionali che garantiscono la trasposizione di tale direttiva nel diritto nazionale – da interpretarsi nel senso che le convinzioni religiose e le convinzioni filosofiche costituiscono due motivi di discriminazione distinti – possano essere considerate, «per quanto riguarda il principio della parità di trattamento, disposizioni più favorevoli di quelle previste [in tale direttiva]», ai sensi dell’art. 8, paragrafo 1, di quest’ultima” (par. 62).

La CGUE, relativamente a tale assunto, non condivide le conclusioni dell’Avvocato Generale, Laila Medina, che si era così espressa: “È chiaro, perciò, che la Corte non ha accertato l’esistenza di un’identità tra la religione e le convinzioni religiose, da un lato, e le convinzioni filosofiche e spirituali, dall’altro, tale da impedire agli Stati membri, da un punto di vista concettuale, di stabilire una protezione autonoma e distinta per ciascuno di detti elementi. Al contrario, dalla sentenza Wabe sembra discendere che la legge nazionale di attuazione della direttiva 2000/78 può scegliere di accordare una tutela autonoma attraverso espressioni quali – per seguire il ragionamento della Corte, – «la religione e le convinzioni religiose, le convinzioni filosofiche» nell’elenco dei motivi di discriminazione” (par. 54 delle conclusioni). 

L’AG, nelle sue conclusioni, esprime l’opinione che l’art. 8 della direttiva 2000/78 debba interpretarsi nel senso di consentire agli Stati membri istaurare tale protezione autonoma, da intendersi quel legittimo strumento volto a determinare, innanzitutto, se i lavoratori soggetti, sulla base della propria professione religiosa, a regole di abbigliamento non devono essere messi, in principio, nella condizione di dover decidere tra l’osservanza dei  obblighi imposti dalla loro fede e la conservazione  del posto di  lavoro (par. 60 delle conclusioni). L’Avvocato generale, nello specifico, considera che alla luce dell’art. 8 della direttiva 2000/78, gli Stati membri possano riconoscere ai lavoratori che ottemperano all’obbligo imposto dalla propria religione una protezione diretta da intendersi quale motivo autonomo di discriminazione; ciò in quanto la religione e le convinzioni possono essere percepite come una caratteristica inseparabile dell’essere di una persona. 

Altra argomentazione dell’AG, anch’essa non accolta dalla CGUE, è incentrata sul caso specifico delle donne che professano la religione musulmana: “se i datori di lavoro impongono regole di neutralità interna come politica generalizzata, le donne musulmane possono in realtà soffrire non solo «particolari disagi», ma un marcato svantaggio nell’accesso al lavoro. Ciò può condurre a sua volta al loro allontanamento dal mercato del lavoro come fonte di sviluppo personale e di integrazione sociale, comportando quindi una discriminazione che va oltre la religione e si estende anche al genere. Sebbene spetti ai giudici nazionali effettuare gli accertamenti necessari per stabilire se tali potenziali problemi siano confermati dai fatti, ritengo importante sottolineare che la doppia discriminazione è una possibilità reale che può essere legittimamente affrontata dagli Stati membri rafforzando il livello di protezione della religione e delle convinzioni religiose, come motivo autonomo di discriminazione, ai sensi dell’articolo 8 della direttiva 2000/78” (par. 66 delle conclusioni).

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *