Sonia Fernández Sánchez
Professoressa associata di Diritto del lavoro
Università di Cagliari
La Grande Camera della Corte di Giustizia dell’Unione europea avalla, nella recente sentenza del 28 novembre 2023 (C-148/22), il principio che la pubblica amministrazione possa vietare ai propri impiegati di indossare nel luogo di lavoro simboli religiosi visibili. Si tratta di una pronuncia che si aggiunge alla saga “sui simboli religiosi nei luoghi di lavoro”, che conferma l’indirizzo della Corte, ma che presenta una novità: per la prima volta il principio è riferito ad un servizio pubblico. Per la prima volta, infatti, si tratta di una misura adottata da un’amministrazione pubblica e non da un datore di lavoro privato, ambito al quale facevano riferimento le sentenze precedenti, da ultime quelle del 15 luglio 2021 e del 13 ottobre 2022.
La sentenza del 2023 risponde ad una questione pregiudiziale, presentata dal tribunale del lavoro di Liegi (Belgio). La ricorrente della causa principale era impiegata presso il Comune belga di Ans e all’epoca dei fatti occupava il posto di “responsabile dell’ufficio”, funzione esercitata senza alcun contatto con gli utenti del servizio pubblico (back office). Nel mese di febbraio 2021, la lavoratrice chiedeva di poter indossare il velo all’interno del posto di lavoro. La Giunta comunale respingeva la richiesta e provvisoriamente – sino all’adozione di una normativa generale relativa all’uso di simboli religiosi all’interno dell’amministrazione – vietava alla ricorrente di indossare, nell’esercizio della sua attività professionale, qualunque segno che potesse rivelare le sue convinzioni religiose. Il 29 marzo 2021 il Consiglio comunale modificava il proprio regolamento introducendo una clausola contenente l’obbligo di “neutralità esclusiva”, da intendersi quale divieto per tutti i dipendenti del Comune di indossare, all’interno del luogo di lavoro, qualsiasi segno visibile idoneo a rivelare le convinzioni personali, in particolare quelle religiose o filosofiche, indipendentemente dal fatto che le loro funzioni siano esercitate a contatto col pubblico. Nello specifico, a seguito delle modifiche, l’articolo 9 del regolamento prevede che “Il lavoratore ha libertà di espressione nel rispetto del principio di neutralità, del proprio obbligo di riservatezza e del proprio dovere di lealtà. Il lavoratore è tenuto a rispettare il principio di neutralità, il che implica il dovere di astenersi da qualsiasi forma di proselitismo e il divieto di esibire qualsiasi segno vistoso che possa rivelare la sua appartenenza ideologica o filosofica o le sue convinzioni politiche o religiose. Tale regola si applica al lavoratore sia nell’ambito dei suoi contatti con il pubblico sia nei suoi rapporti con i suoi superiori e i suoi colleghi”.
Tale normativa interna, secondo la ricorrente, aveva carattere discriminatorio e violava la sua libertà religiosa. L’organo giurisdizionale del rinvio era giunto alla medesima conclusione, nell’affermare che “il divieto di indossare il velo islamico imposto alla ricorrente nel procedimento principale costituisce una differenza di trattamento direttamente fondata sulla religione di quest’ultima rispetto agli altri membri del personale del Comune, dal momento che altri segni di convinzioni personali, in particolare religiose, indossati discretamente, sono stati tollerati dal comune sul luogo di lavoro in passato e lo sono tuttora. Peraltro, esso ritiene che tale differenza di trattamento non sia giustificata da requisiti professionali essenziali e determinati, ai sensi dell’articolo 8 della legge generale contro la discriminazione, in quanto la ricorrente nel procedimento principale esercita le sue funzioni principalmente in back office, e che costituisca quindi una discriminazione diretta, ai sensi della Direttiva 2000/78”.
Il giudice belga, inoltre, aveva aggiunto che la regola introdotta nel regolamento comunale costituisce apparentemente una discriminazione indiretta poiché essa è, sì, neutra, ma l’applicazione che ne viene fatta dal comune è a geometria variabile. Infatti, secondo il giudice, tale regola è “esclusiva” nei confronti della ricorrente nel procedimento principale e “più inclusiva” per i suoi colleghi che hanno altre convinzioni personali”. In essenza, l’organo giurisdizionale remittente chiede, nella sua seconda questione pregiudiziale, se l’articolo 2, comma 2, lettere a) e b) della Direttiva 2000/78 debba interpretarsi nel senso di consentire ad un’autorità pubblica di organizzare un ambiente amministrativo totalmente neutro, vietando l’uso visibile di segni che rivelino, in particolare, convinzioni filosofiche o religiose a tutti i dipendenti, siano o non in contatto col pubblico, quando tale divieto sembra colpire una maggioranza di donne e, per tanto, può costituire una discriminazione indiretta per motivi di genere. Si potrebbe aggiungere che tale divieto pregiudica non solo le donne in quanto tali, ma nello specifico quelle immigrate e, per tanto, potrebbe costituire, altres^ una discriminazione per motivi di origine etnica. Il giudice remittente sottopone quindi al giudice europeo l’analisi di una situazione che potrebbe comportare una discriminazione multipla o intersezionale. Quanto alla seconda questione pregiudiziale, il giudice europeo ne ha dichiarato l’inammissibilità rifiutandosi di analizzare la controversia da una prospettiva di genere.
In ordine alla prima questione pregiudiziale la Corte ribadisce il principio affermato nelle precedenti decisioni, e cioè che la misura, o norma, non è discriminatoria se applicata in forma “generale e indiscriminata” a tutto il personale dell’amministrazione, così come avviene nel caso concreto.
La Corte di Giustizia dell’Unione europea, in sostanza, afferma che l’articolo 2, comma 2, lettera b) della Direttiva 2000/78 deve interpretarsi nel senso che “una norma interna di un’amministrazione comunale che vieta, in maniera generale e indiscriminata, ai membri del personale di tale amministrazione di indossare in modo visibile, sul luogo di lavoro, qualsiasi segno che riveli, in particolare, convinzioni filosofiche o religiose, può essere giustificata dalla volontà di detta amministrazione di istituire, tenuto conto del proprio contesto, un ambiente amministrativo totalmente neutro, purché tale norma sia idonea, necessaria e proporzionata rispetto a tale contesto e tenuto conto dei diversi diritti e interessi in gioco”. Di conseguenza, dal punto di vista della proporzionalità, la misura può essere giustificata dalla volontà del datore di lavoro di garantire un regime di neutralità filosofica e religiosa sia nei confronti dei clienti o utenti, sia rispetto ai superiori gerarchici e ai colleghi: tale finalità giustificherebbe l’estensione del divieto anche ai dipendenti che esercitano le proprie mansioni senza entrare in contatto con i clienti o gli utenti. Tale regime di neutralità, viene ribadito, deve tuttavia rispondere ad una effettiva necessità della amministrazione che intenda adottarlo.
Una prima domanda da porsi è se una genuina necessità di imporre un regime di neutralità da parte di una determinata amministrazione sia compatibile con la dimensione esterna della libertà religiosa, intesa come la possibilità di esercizio di tale diritto senza coazione da parte dei poteri pubblici, fatti salvi i limiti alla sua manifestazione derivanti da esigenze di sicurezza pubblica, di salute pubblica, di ordine pubblico o di protezione dei diritti e libertà altrui.
Tale questione viene risolta dalla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, con l’affermare – al paragrafo 33 – che “a ciascuno Stato membro, ivi compresi, eventualmente, i suoi enti infrastatali, nel rispetto delle competenze loro attribuite, dev’essere riconosciuto un margine di discrezionalità nella concezione della neutralità del servizio pubblico che esso intende promuovere sul luogo di lavoro. Pertanto, la politica di “neutralità esclusiva” che una pubblica amministrazione, nel caso di specie comunale, intende imporre ai suoi dipendenti, a seconda del contesto suo proprio e nell’ambito delle sue competenze, al fine di instaurare al suo interno un ambiente amministrativo totalmente neutro, può essere considerata oggettivamente giustificata da una finalità legittima, ai sensi dell’articolo 2, comma 2, lettera b), punto i), della direttiva 2000/78. Del pari, può esserlo la scelta di un’altra pubblica amministrazione, a seconda del contesto suo proprio e nell’ambito delle sue competenze, a favore di un’altra politica di neutralità, quale un’autorizzazione generale e indiscriminata a indossare segni visibili di convinzioni personali, in particolare filosofiche o religiose, anche nei contatti con gli utenti, oppure un divieto di indossare siffatti segni limitato alle situazioni che implicano tali contatti”. In definitiva, la Corte lascia ad ogni Stato membro e ad ogni singola amministrazione il potere di decidere se applicare o meno il divieto di indossare simboli religiosi all’interno del luogo di lavoro a seconda della loro concezione di neutralità del servizio pubblico.
La sentenza della Corte specifica che la norma interna dell’Amministrazione, nel caso concreto del Comune, per non risultare discriminatoria dev’essere idonea a garantire la corretta applicazione della finalità perseguita. Ciò comporta che l’obiettivo di “neutralità esclusiva” fissato dal comune deve veramente essere perseguito in forma congruente e sistematica, e che il divieto di indossare qualsiasi segno visibile di convinzioni, in particolare filosofiche e religiose, sia limitato allo strettamente necessario. Per poter essere idonea o adeguata a garantire la corretta applicazione del regime di neutralità, la norma deve applicarsi a tutti i dipendenti e per tutti i simboli religiosi. Il divieto, infine, dovrà limitarsi a quanto strettamente necessario. Il giudizio di necessità, quindi, si materializza con la possibilità di usare un’altra misura, più innocua, che consenta una maggior protezione del diritto colpito, in questo caso della libertà religiosa. Quest’ultimo inciso, in sostanza, si risolve in una sollecitazione ad una forma di accomodamento ragionevole; possibilità che la Corte aveva già segnalato nella sentenza del 14 marzo 2017, e che potrebbe materializzarsi nello spostamento dalla dipendente da una mansione che preveda contatti col pubblico ad un’altra di back office.
La soluzione che la Corte, in altra occasione, aveva prospettato non appare però praticabile nel caso in esame. In questo caso, infatti, la Corte giunge ad affermare che la scelta di imporre una neutralità religiosa da parte dell’Amministrazione prevale anche nel caso che la dipendente non presti la propria attività a contato con il pubblico e la neutralità può essere imposta anche nei confronti dei colleghi di lavoro. La Corte, sullo stesso solco della sentenza del 2021, reitera così la tesi della “neutralità religiosa escludente”, cioè di quella rivolta non soltanto ai dipendenti a contatto col pubblico, ma anche ai rapporti tra i dipendenti e ai contatti con i superiori gerarchici. In tal modo, viene esclusa qualsiasi possibilità di poter indossare simboli religiosi all’interno del luogo di lavoro, non potendosi immaginare una prestazione lavorativa priva di contatti interpersonali.
La decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea, anche nel caso delle pubbliche amministrazioni, è quindi chiara: “la finalità legittima consistente nell’assicurare, attraverso una politica di «neutralità esclusiva» come quella stabilita dall’articolo 9 del regolamento di lavoro di cui trattasi nel procedimento principale, un ambiente amministrativo totalmente neutro può essere perseguita efficacemente solo se non è ammessa alcuna manifestazione visibile di convinzioni personali, in particolare filosofiche o religiose, quando i lavoratori sono a contatto con gli utenti del servizio pubblico o sono a contatto tra loro, poiché il fatto di indossare qualsiasi segno, anche se di piccole dimensioni, compromette l’idoneità della misura a raggiungere l’obiettivo asseritamente perseguito e rimette così in discussione la coerenza stessa di tale politica”.