Luca Ratti,
Professore di Diritto del lavoro europeo e comparato, University of Luxembourg
29 giugno 2022
Quasi cinque anni sono trascorsi dall’approvazione del Pilastro Europeo dei diritti sociali. Dalla sua proclamazione solenne a Göteborg il 17 novembre 2017, il quadro socio-economico europeo è mutato sensibilmente. Per trarre spunti utili a comprendere in quale direzione sia indirizzata la c.d. Europa sociale, è utile tracciare un primo bilancio dell’impatto del Pilastro e delle azioni legislative di hard law da esso direttamente derivanti.
Un importante punto di partenza è l’accoglienza molto in sordina riservata alla proclamazione del Pilastro sociale. È poco, si è detto: non ha valore legale, né rango costituzionale, contiene nozioni ambigue, non contiene principi ma solo norme programmatiche, riprende la logica della flexicurity non curandosi di aggiornarla. È troppo, si è detto: sconfina di competenze e sovraccarica di funzioni un’Europa sociale (intesa nel senso del Titolo X del TFUE) già ‘affaticata’; impegna contemporaneamente tutte le istituzioni (trattandosi di proclamazione interinstituzionale) finendo per non impegnarne alcuna.
Per ovviare a questa paradossale debolezza, tutte le iniziative portate a termine già dagli anni 2018-2019 sono state canalizzate come se fossero derivate direttamente del Pilastro sociale.
Per ricordarne solo alcune:
- la nuova direttiva sul distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi (2018/957),
- la direttiva sulle condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili (2019/1152),
- la direttiva work-life balance (2019/1158),
- la Raccomandazione sulla protezione sociale per tutte le forme di impiego, etc.
Senonché, nessuna di esse, in effetti, era stata preconizzata nel Pilastro, che aveva ed ha una portata e un orizzonte ben più ampi. La stessa dottrina giuslavoristica ha partecipato – nei mesi antecedenti l’adozione del Pilastro – molto sporadicamente al relativo dibattito e quasi per nulla alla procedura ufficiale di consultazione, contrariamente, ad esempio, a quanto accadde nel 2006 per analoga procedura in tema di flexicurity (Barbera, La «flexicurity» come politica e come narrazione, in Caruso, Del Punta, Treu (a cura di), Il diritto del lavoro e la grande trasformazione, Il Mulino, 2020).
Ma poco o pochissimo si è anche scritto sul pilastro: pochi sono i contributi apparsi sulle riviste di diritto del lavoro europeo, uno a quanto mi consta su riviste di diritto europeo tout court, dove tuttavia ci si è limitati a descriverne i contenuti e si sono lasciati aperti importanti interrogativi.
Ancor più timida è stata l’accoglienza da parte della dottrina italiana, tranne rare benché importanti eccezioni.
Certo, il Pilastro ha natura mista, in primo luogo sul piano delle fonti formali (Proclamazione interinstituzionale – Raccomandazione). Ma anche sul piano del suo contenuto, in specie là dove tratta anche di materie tipicamente al di fuori del campo giuslavoristico (pensiamo alle proposizioni numero 19 sull’accesso all’alloggio per persone in stato di bisogno e persone vulnerabili e 20 sull’accesso ai servizi essenziali come acqua, servizi igienico-sanitari, energia, trasporti, servizi finanziari e comunicazioni digitali). Tutti questi sono fattori che hanno in parte spiazzato la dottrina e impedito di considerare funditus la portata dello strumento.
Con un parallelismo in parte ardito, la ritrosia verso il Pilastro del 2017 risulta in netto contrasto con le reazioni verso un analogo documento programmatico proclamato più di 30 anni fa.
Anche la Carta di Val Duchesse, ossia la Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989 era ed è una dichiarazione prettamente politica. Era stata accolta a larghissima maggioranza dal Comitato europeo per i diritti sociali (CESE), con due soli voti contrari (la parte datoriale inglese e la CGT francese) (riferimenti in Jean Lapeyre, Le dialogue social européen. Histoire d’une innovation sociale (1985-2003), ETUI 2017, 74).
Certo, anni dopo, molte di quelle proclamazioni si sono consolidate nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE, ma occorre non dimenticare come questo processo sia durato quasi 20 anni. E per riprendere le stesse parole di Jaques Delors, : « Quant à sa forme, tout en comprenant votre insatisfaction vis-à-vis d’une déclaration solennelle, je vous invite… à ne pas mésestimer l’impact durable qu’aurait un engagement solennel des chefs d’État et de gouvernement ».
Ebbene, la Carta del 1989 ricevette tutt’altra accoglienza nella dottrina giuslavoristica.
La Modern Law Review del 1990 ospita due importanti saggi di Brian Bercusson (che auspicava un uso creativo della Carta da parte degli stati membri, in specie per dare corpo alle promesse di quel testo) e di Bob Hepple (che si interrogava se proclamare l’ennesimo testo privo di valore legale non portasse a ripetere gli errori del passato e dunque basare la politica sociale unicamente su impegni non vincolanti) (ulteriori riferimenti in Wedderburn, 54 MLR (1991) 25). La Carta ebbe rilievo financo oltre oceano, dove apparve commentato nel 1990 da Mary Dominik sul Fordham International Law Journal e da George Craw sulla Hastings International and Comparative Law Review. E poi ancora nell’Industrial Law Journal del 1992 (dove già si tracciava un bilancio) (B. Fitzpatrick 21 ILJ 1992, 199).
In Italia si trova un commento molto positivo di Michele De Luca sul Foro Italiano del 1990 (V, 129) e poi alcuni lavori monografici, tra cui il libro di Fausta Guarriello su Ordinamento comunitario e autonomia collettiva: il dialogo sociale(FrancoAngeli, 1992) che attingeva con grande precisione proprio alla Carta del 1989.
Antonio Tizzano (Diritto dell’Unione Europea, fasc.2-3, 1996, pag. 267) indica la Carta comunitaria del 1989 come una tappa fondamentale di traduzione dei diritti fondamentali nell’impianto costituzionale dell’Unione attuato con Amsterdam. Negli archivi della Commissione (riferimenti ulteriori in Adinolfi, La politica sociale comunitaria nel 1995, in Diritto dell’Unione Europea, fasc.3, 1996, pag. 863) si trovano poi le relazioni annuali sull’attuazione della Carta comunitaria del 1989, segno che la sua proclamazione non era intesa come un fuoco di paglia, bensì doveva dar luogo a risultati durevoli nel tempo.
Certo, Miguel Rodriguez-Pinero ed Emilia Casas riferiscono la Carta comunitaria come assemblata con ‘imprecisione calcolata’ (Miguel Rodriguez-Pinero, Emilia Casas, In support of a European Constitution, in Davies, Lyon-Caen, Sciarra, Simitis, European Community Labour Law, OUP 1996, 32-33), ma ne riconoscono l’enorme importanza, per avere posto essenzialmente tre idee: l’armonizzazione dei sistemi giuridici anche in campo sociale; le politiche anti-dumping; e il riconoscimento di diritti fondamentali di natura sociale anche a livello comunitario.
Stefano Giubboni (nella versione inglese del 2006 della sua monografia), ne evidenzia la portata minimale e lo scarso impatto sulla giurisprudenza della Corte di giustizia (Giubboni 2006, 102). Anche se occorre ammettere che alcuni landmark cases abbiano dimostrato il contrario: si veda il caso Renault Vilvorde, deciso il 7 maggio 1997 dalla Corte d’appello di Versailles, proprio facendo leva sulla Carta del 1989.
Non dobbiamo dimenticare come, addirittura, la Carta comunitaria del 1989 sia penetrata nel protocollo sociale accluso al trattato di Amsterdam, per giungere sinanco a figurare nell’art. 151 TFUE (ex art. 136 del Trattato Istitutivo) fra gli obiettivi stessi della politica sociale europea.
Veniamo all’oggi: quali sono le due principali iniziative di hard law che derivano dal Pilastro e cosa ci dicono sull’avvenire dell’Europa sociale?
1. Dal dicembre 2019 si è insediata l’attuale Commissione europea, che addirittura ha inserito nel programma dei 100 giorni un’iniziativa sui salari minimi adeguati. Come noto, l’iniziativa è stata portata avanti senza esitazione mediante due tornate di consultazioni ai sensi dell’art. 154 TFUE e ha portato, nell’ottobre 2020, a una proposta di direttiva. Il testo ha formalmente superato le due forche caudine dei servizi giuridici del Parlamento europeo (prima) e soprattutto del Consiglio (più di recente).
Della direttiva vorrei rimarcare solamente due snodi, che ritengo molto coraggiosi e da tenere presente se vogliamo interrogarci sull’avvenire dell’Europa sociale.
Il primo riguarda lo sforamento di competenze, il secondo l’impatto della direttiva sui sistemi di relazioni industriali nazionali.
Circa lo sforamento di competenze – che risulta essere uno degli elementi più dirompenti della proposta di direttiva – si è scritto e letto moltissimo. È evidente che ancora adesso la questione rimane molto aperta, non tanto sul piano interpretativo, poiché la maggioranza degli autori – lavoristi ed europeisti – si è detta concorde nel ritenere la proposta di direttiva rispettosa dell’Art. 153(5) TFUE. Quanto invece sul piano politico, poiché permane una nettissima spaccatura fra alcuni paesi nordici e il blocco franco-italo-tedesco. L’argomento principale in particolare di Svezia e Danimarca – sostenuto in base ad alcune opinioni dottrinali molto influenti – è che all’atto di accesso di tali Paesi, la Comunità europea garantì che l’autonomia delle parti sociali nel determinare tutte le politiche e dinamiche del mercato del lavoro sarebbe stata preservata. Ciò accadde sia ufficialmente (ossia nel protocollo di ingresso) sia diciamo ufficiosamente, con uno scambio epistolare fra l’allora Commissione e il ministro competente a negoziare l’ingresso. In Svezia questo scambio è noto sotto il nome di Flynn letters, dal nome dell’allora commissario europeo all’occupazione e affari sociali Padraig O’Flynn (1993-1999) (riferimenti in N. Bruun, Challenges in Labour relations: the Nordic Case, in J. Shaw, Social Law and Policy in an Evolving European Union, Hart, 2000, 112). Ora, nutro pochi dubbi che il valore giuridico di tale epistolario sarà scartato dalla Corte di giustizia ove la questione si ponga in Lussemburgo. Resta tuttavia, e ne è un esempio il voto del Parlamento danese del dicembre 2021 contro la proposta di direttiva, che lo sforamento di competenze rimane una “fune sottile e instabile”, sulla quale la proposta di direttiva tenta pericolosamente di camminare (Aranguiz-Garben 2019).
Sull’impatto della direttiva sui sistemi di relazioni industriali, occorre ricordare come il timore maggiore attiene alla capacità creativa giurisprudenza della Corte di giustizia. In alcune recenti sentenze, la Corte ha impiegato tutto il proprio armamentario interpretativo per spingersi al di là delle disposizioni testuali delle direttive. Un caso emblematico è la sentenza Deutsche Bank (C-55/18), che interpretava la direttiva 2003/88 sull’orario di lavoro. Anche in assenza di un’espressa previsione in merito, la Corte ha ritenuto sussistente un obbligo per gli Stati membri di garantire che i datori di lavoro adoperino sistemi certi e trasparenti per la verifica dell’orario di lavoro, come ad esempio il cartellino marcatempo o i registri giornalieri.
Ebbene, dinanzi alle pur ampie formulazioni della proposta di direttiva sui salari minimi adeguati, molti temono che la Corte di giustizia si possa spingere al di là del suo testo, ad esempio interpretando l’art. 11 sul diritto di ricorso in caso di violazione del salario minimo, in modo da scavalcare la competenza dei sindacati a pretendere il rispetto del salario, tipica di quei paesi. Ciò determinerebbe, in fine, uno scardinamento delle parti sociali come non soltanto attori della contrattazione collettiva, ma monopolisti della sua attuazione concreta, anche giudiziale.
2. Vengo ora alla seconda iniziativa considerata come cruciale dall’attuale Commissione europea: la direttiva sul lavoro tramite piattaforme digitali, che pure mi sembra possa offrire elementi di discussione per comprendere l’avvenire dell’Europa sociale.
Nel dicembre 2021, la Commissione ha lanciato una consultazione sul lavoro tramite piattaforma digitale. La partecipazione è stata anche qui non eccezionale, ma la cosa più curiosa è la posizione adottata da ETUC da ultimo in settembre/ottobre 2021: nonostante il quadro sia quello degli articoli 154 e 155 TFUE, le parti sociali (in specie ETUC) hanno espressamente chiesto alla Commissione di non procedere oltre con il dialogo sociale, per fare presto e fare meglio.
Il tema del lavoro tramite piattaforme digitali ha occupato le pagine di pressoché tutte le riviste giuslavoristiche, dapprima straniere ma in misura crescente anche italiane, almeno dal 2016 in poi. Vi sono importanti progetti europei incentrati sul tema, sia dalla prospettiva individuale sia da quella collettiva.
Nella quasi immobilità generale degli Stati membri (solo la Spagna ha una legge riders, l’Italia ha ben poca cosa al confronto) e nel caleidoscopio di sentenze elaborate a livello nazionale, il testo proposto dalla Commissione tratta di temi cruciali, quali la qualificazione mediante presunzione di subordinazione, la trasparenza, e la gestione algoritmica dei rapporti di lavoro.
Più di tutto, occorre riflettere sull’importanza di introdurre una presunzione di subordinazione.
Secondo quanto già peraltro annunciato dalla seconda fase di consultazione, la presunzione sarà relativa al solo lavoro tramite piattaforma e lascerà intatta la definizione di lavoratore valida nel diritto europeo, che è quella stratificatasi a partire da Lawrie-Blum in poi e ora codificata nella direttiva trasparenza (2019/1152).
Appunto ferma quella definizione, la direttiva avrà un impatto significativo su come definiamo la subordinazione, dentro e fuori dai confini del lavoro tramite piattaforma. Perché se è vero che vale l’approccio (direi quasi di common law) delle definizioni c.d. stipulative, ossia che valgono ma solo per l’applicazione di questa o quella direttiva, è indubbio che ogniqualvolta si dirà che è presunta la natura subordinata del rapporto di lavoro allorché la piattaforma eserciti un controllo/influenza dominante/potere di organizzazione, o altri, si arriva a definire in che cosa consiste la subordinazione digitale, quali sono i dati fattuali che il giudice potrà considerare, ma più in generale quale sarà la tipologia del lavoro subordinato negli anni a venire.
In tal senso sarà fondamentale definire i criteri che la direttiva infine utilizzerà, e se essi saranno contenuti in un elenco (seppur indicativo) nel corpo della direttiva, oppure se saranno soltanto nei preamboli, dunque con tutt’altro valore. Quale che sia la scelta finale del testo, la direttiva sul lavoro tramite piattaforme digitali, se approvata, marcherà il mandato dell’attuale Commissione, in un senso o nell’altro. Lo stesso vale per la direttiva sui salari minimi adeguati.
Non può dirsi, allo stato, se le due principali iniziative di hard law promosse a seguito del Pilastro sociale saranno capaci di incidere a fondo sull’avvenire dell’Europa sociale. Numerose iniziative di soft law sono state promosse o realizzate, come ad esempio il cantiere tuttora aperto su una Raccomandazione sul reddito minimo (attesa nel 2022), anch’essa una tappa importante da studiare.Certo, mi pare non revocabile in dubbio che l’ampiezza e la portata di questi interventi lasci intendere che un profondo cambiamento è già in atto. Si tratta, forse, di coglierlo appieno.