Vania Brino
Professoressa ordinaria di Diritto del lavoro, Università Ca’ Foscari Venezia
22 giugno 2022
Il contesto europeo si rivela, da qualche tempo, un terreno particolarmente fertile e avanzato sui temi della protezione dei diritti umani, e dei diritti dei lavoratori in particolare, nell’ambito delle attività di impresa. La Proposal for a Directive of the European Parliament and of the Council on Corporate Sustainability Due Diligence and amending Directive (EU) 2019/1937, 23 Febbraio 2022, COM(2022) 71 final, 2022/0051 (di seguito “Proposta di Direttiva” o “Proposta”) richiesta dal Parlamento europeo nel marzo del 2021 e presentata dalla Commissione lo scorso 23 febbraio, rappresenta un tassello fondamentale dei percorsi regolativi di responsabilizzazione degli attori economici all’interno delle catene globali del valore.
L’interrogativo di fondo dal quale muove l’analisi verte sulla possibilità che la due diligence possa essere oggi considerata lo strumento regolativo che riporta a sistema, razionalizza e responsabilizza le imprese nelle complessità del tempo presente.
La contestualizzazione della Proposta di Direttiva, alla luce dei più recenti interventi regolativi a livello europeo che investono il tema della governance societaria sostenibile, è un passaggio necessario al fine di definirne la portata e decifrarne le criticità. Sul punto almeno due profili meritano di essere richiamati nei limiti del presente scritto.
Una prima considerazione porta a registrare che i percorsi regolativi avviati dall’Unione europea, pur nella loro eterogeneità, sono dominati da istanze comuni di responsabilizzazione degli attori economici e trovano il comune denominatore nel paradigma della sostenibilità, quale nuova parola d’ordine che sta assumendo sempre più rilevanza nella legislazione contemporanea.
Pensiamo, ad esempio, alla Direttiva n. 2014/95/Ue in materia di informazioni non finanziarie e alla discussione in corso volta a potenziare gli strumenti di enforcement e la portata degli obblighi per le imprese coinvolte, così come al Regolamento (Ue) n.2020/852 relativo all’istituzione di un quadro che favorisce gli investimenti sostenibili e definisce i criteri per stabilire se un’attività economica possa essere considerata sostenibile dal punto di vista ambientale.
Il Regolamento poc’anzi richiamato introduce una tassonomia dei prodotti ed investimenti finanziari che devono essere valutati tenuto conto del loro diverso grado di sostenibilità ambientale. Sono tre i parametri in ragione dei quali individuare il livello di sostenibilità associabile ad un’attività economica: l’attività promuove uno o più obiettivi ambientali; l’attività non arreca danni significativi rispetto agli obiettivi posti dal Regolamento; l’attività rispetta le garanzie sociali minime, in particolare le Linee guida OCSE per le imprese multinazionali[1] e i Principi Guida dell’ONU sulle imprese e i diritti umani[2]. In quest’ultimo rinvio, in particolare, emerge chiaramente l’affinità con le previsioni in tema di due diligence tanto da lasciar presumere che in futuro il rispetto del dovere di vigilanza costituirà un indicatore preso a riferimento dagli investitori per valutare i rischi degli investimenti con riferimento alla materia ambientale e dei diritti umani.
Possiamo altresì richiamare i numerosi interventi settoriali che istituiscono processi di due diligence. Tra questi il Regolamento europeo del 20 ottobre 2010 prevede l’obbligo, per gli operatori che immettono legname e prodotti derivati sul mercato interno, di identificare tutti i subappaltatori nella catena nonché una valutazione dei relativi rischi; così come la normativa per il settore minerario che impone alle imprese importatrici di minerali e metalli l’obbligo di tracciare i propri fornitori ed introduce un sistema di gestione dei rischi basato su strategie di identificazione, audit di controllo e pubblicazione di una relazione annuale (Regolamento 2017/821).
Un secondo ordine di questioni indugia sul fatto che, proprio in ragione dell’eterogeneità degli interventi sia a livello europeo che nazionale, la Proposta di Direttiva, in quanto strumento di armonizzazione normativa, risponde all’esigenza, da tempo manifestata in seno alle istituzioni europee, di introdurre una base comune di riferimento per gli stati e per le imprese sul tema della due diligence, ovvero tendere verso la creazione di un quadro comune di previsioni attraverso il quale l’Unione europea si impegna a promuovere la responsabilizzazione delle imprese e la tutela dei diritti umani, garantendo al contempo un’equa concorrenza e il buon funzionamento del mercato interno. Ciò passa necessariamente anche attraverso la definizione del rapporto tra la normativa generale e le normative settoriali di cui si è detto, nella direzione di poter ritenere queste ultime una sorta di tutela rafforzata applicabile in settori particolarmente vulnerabili.
In questi termini il memorandum esplicativo della bozza di direttiva individua cinque obiettivi specifici: migliorare le pratiche di governo societario per integrare meglio la gestione del rischio di sostenibilità nelle strategie aziendali; evitare la frammentazione degli obblighi di dovuta diligenza nel mercato unico e creare certezza del diritto per le imprese e le parti interessate; aumentare la responsabilità delle imprese per gli impatti negativi e garantire la coerenza per le imprese attraverso le iniziative dell’UE esistenti e proposte sulla condotta aziendale responsabile; migliorare l’accesso ai rimedi per le persone lese; integrare misure di sostenibilità più specifiche su determinati temi o settori.
Alla base il tentativo di adeguare il regime di responsabilità delle imprese alle strategie e alle strutture del mercato globale e, in particolare, di ricondurre le responsabilità al potere che le imprese esercitano sulle entità giuridiche ed economiche all’interno delle catene globali del valore.
Se l’intento è certamente condivisibile, emergono al contempo taluni elementi di ambiguità sul piano del linguaggio adottato dalla Proposta di Direttiva. Pensiamo, ad esempio, ad espressioni come quelle di “established business relationship” (art. 3 lett. f), di “direct or indirect business relationship” (art.7), o ancora di “severe adverse impact” (art. 3 lett. l), o “appropriate measure” (art. 3 lett. q). L’ampiezza e vaghezza di questi enunciati potrebbe affievolire l’effettività ed efficacia degli obblighi imposti in tema di due diligence e certamente enfatizzare, in prospettiva, il ruolo delle Corti che dovranno decifrare il dettato legislativo, garantendone l’applicazione all’interno di contesti profondamente diversificati.
Venendo all’ambito di applicazione, la Proposta di Direttiva riguarda le imprese dell’Unione Europea con un distinguo da farsi in relazione al numero di dipendenti e al fatturato.
Anzitutto vi sono le grandi società (oltre 500 dipendenti e un fatturato netto a livello mondiale che supera i 150 milioni di EUR) che si stimano nell’ordine di 9400 imprese europee più altre 2600 extra-Ue; vi sono poi le società, operanti in determinati settori con rischi elevati (es: settore minerario, tessile, ecc.), che pur non raggiungendo le soglie poc’anzi richiamate, hanno più di 250 dipendenti e un fatturato netto a livello mondiale pari o superiore a 40 milioni di EUR (stimate in 3400 basate in Ue e 1400 in Paesi terzi); infine ci sono le imprese di paesi terzi con una soglia del fatturato generato nell’Unione Europea in linea con i requisiti di cui sopra. Il fatturato va calcolato a livello globale per le aziende europee e a livello Ue per quelle di Paesi terzi.
Risultano diversamente escluse sia le imprese pubbliche sia le Pmi. Considerato che queste ultime rappresentano circa il 90% delle imprese europee, il terreno di operatività della due diligence si rivela, per lo meno sul piano formale, più contenuto rispetto a quanto previsto sia nei Principi Guida ONU che nelle Linee guida OCSE sulla base dei quali le aziende devono introdurre processi di due diligence opportunamente adattati alle loro dimensioni, ai contesti operativi e, soprattutto, al loro profilo di rischio. Si potrà discutere eventualmente sul fatto che, indirettamente, le Pmi potranno essere coinvolte nel momento in cui risultano partner commerciali dell’impresa sottoposta alla due diligence.
Quanto alla tipologia di rapporti tra imprese che sono oggetto di intervento se, nel passato più recente, l’attenzione delle istituzioni internazionali e dei legislatori nazionali si è concentrata sui rapporti all’interno dei gruppi societari, a partire dai Principi Guida ONU i riflettori si sono accesi sulle catene globali del valore. Esemplificativa di questo cambio di passo è anche la Risoluzione dell’OIL sulla governance delle catene dalla quale emerge chiaramente l’esigenza di costruire un reticolato normativo capace di regolare le dinamiche tra i nodi della filiera garantendo al contempo il rispetto dei diritti dei lavoratori.
La Proposta di Direttiva conferma tale orientamento definendo, come ambito di applicazione della due diligence, sia i rapporti tra imprese e proprie sussidiarie (art. 3 lett. d) sia i rapporti tra l’impresa dominante e i partner commerciali.
Mentre nel primo caso la due diligence discende dal controllo esercitato dalla lead firm sulle sussidiarie, e quindi su quanto previsto nella Direttiva 2004/109/CE, nel secondo rilevano le relazioni commerciali e, nello specifico, le established business relationship (art. 3 lett. f). Nel considerando n. 20 si chiarisce che per “established business relationships” possono intendersi sia rapporti diretti che indiretti. I criteri individuati guardano all’intensità del rapporto, alla sua durata e al fatto che non rappresenti una parte residuale nelle dinamiche della catena.
La formula utilizzata è mutuata dalla legge francese ma si presenta distonica rispetto a quanto previsto dagli standard internazionali in tema di due diligence. In particolare i Principi Guida ONU adottano una prospettiva regolativa più ampia ovvero non circoscrivono l’ambito di applicazione della due diligence ai “rapporti commerciali consolidati”. Una decisione che intende contrastare eventuali comportamenti opportunistici delle imprese finalizzati ad ignorare gli impatti prodotti nelle parti più remote della catena del valore, e considerare quindi solo i rischi relativi ai propri partner strategici. Tra l’altro un’indicazione di questo tipo potrebbe condurre le imprese a privilegiare partner non stabili, così da evitare di assolvere agli obblighi in tema di due diligence. La mappatura dei rischi dipende evidentemente da ciò che accade all’interno di tutti i nodi della catena e, di conseguenza, il piano di vigilanza può dirsi trasparente ed efficace solo se presuppone a monte l’individuazione di tutti i partner commerciali e delle sussidiarie dell’impresa.
Un’ultima considerazione attiene ai profili sostanziali dell’obbligo di due diligence. Ai sensi del considerando n. 15 della Proposta di Direttiva l’obbligo di due diligence si configura come un’obbligazione di risultato che dovrà essere ulteriormente dettagliata e specificata dai legislatori nazionali, con il chiaro intento di soddisfare gli obiettivi prefissati dalla Proposta.
Nello specifico, al fine di rispettare l’obbligo di due diligence (art. 4), le imprese dovranno:
a) integrare la due diligence nelle politiche aziendali (art. 5);
b) individuare gli effetti negativi reali o potenziali sui diritti umani e sull’ambiente (art. 6);
c) prevenire o attenuare gli effetti potenziali e porre fine o ridurre al minimo gli effetti reali (artt. 6 e 7);
d) istituire e mantenere una procedura di denuncia (art. 9);
e) monitorare l’efficacia delle politiche e delle misure di due diligence (art. 10);
f) dar conto pubblicamente delle misure di due diligence tenuti altresì in considerazioni gli obblighi di reporting sulle informazioni non finanziarie (art. 11).
Nei limiti di queste brevi note, intendiamo svolgere qualche considerazione di ordine generale sulla portata dell’obbligo di due diligence a partire dal fatto che, come espressamente evidenziato nell’art. 5, la due diligence deve assumersi come parte integrante delle politiche societarie e tratto identitario delle stesse. In questi termini si assiste ad un’evoluzione e ad un avanzamento rispetto alle logiche che caratterizzano i processi di responsabilità sociale d’impresa.
Una seconda osservazione verte sulla cartografia dei rischi che le imprese sono tenute ad elaborare. Qui viene introdotta una differenziazione tra gli “actual and potential adverse human rights impacts” che devono essere individuati dalle imprese di cui all’art. 2 (1) lett. a, e gli “actual and potential severe adverse impacts” che devono essere individuati dalle imprese di cui all’art. 2 (1) lett. b e 2 (2) lett. b.
Una simile distinzione potrebbe porre problemi non secondari in fase applicativa, pur se la Proposta di Direttiva interviene precisando che l’intensità del “severe adverse impact” è misurata sulla base di una serie di fattori: la natura dell’impatto, il fatto che coinvolga un largo numero di persone o una vasta area territoriale, il fatto che sia irreversibile o rispetto al quale sia particolarmente difficile individuare dei rimedi (art. 3 lett. l).
Se operiamo un raffronto con i Principi Guida ONU, rileva in particolare il Commento al Principio 14 ai sensi del quale la gravità delle violazioni dev’essere accertata tenuto conto della loro entità, ovvero della gravità della violazione; della loro portata, ovvero il numero di soggetti che sono o potranno essere interessati; la loro natura irrimediabile o meno, che può essere definita come i limiti posti alla capacità di riportare gli interessati o l’ambiente ad una situazione almeno identica, o equivalente, alla loro situazione prima dell’impatto negativo. Questa natura irrimediabile deve essere distinta dalla compensazione finanziaria: quest’ultima è qui importante solo nella misura in cui può consentire il recupero in una situazione identica (o equivalente).
Come chiarito nei Principi n. 18 e n. 24 dei Principi Guida ONU, la gravità non deve intendersi in senso assoluto ma piuttosto in rapporto agli altri impatti sui diritti umani che l’azienda ha individuato e, da qui, l’obbligo di introdurre misure che attenuino i rischi più gravi e, a seguire, di prevedere azioni rivolte a mitigare le altre situazioni di rischio. Le imprese saranno quindi tenute a mappare i rischi anche considerando il loro livello di gravità. In questi termini il punto 2.4 della Due Diligence Guidance for Responsible Business Conduct dell’OCSE secondo cui l’impresa è tenuta a classificare, se necessario, i rischi di impatti negativi e a definire le misure da adottare in funzione della gravità e della probabilità di questi ultimi.
Una considerazione, da ultimo, riguarda quanto previsto dall’art. 7 in ordine alle azioni che le imprese devono adottare per prevenire gli impatti avversi sui diritti umani e sull’ambiente.
La Proposta prevede, per un verso, l’adozione di un piano d’azione di prevenzione, con scadenze definite e indicatori qualitativi e quantitativi per misurarne i miglioramenti e, per altro verso, la possibilità per le imprese di ottenere delle garanzie assicurative dai propri partner commerciali diretti circa il rispetto del codice di condotta e, se necessario, del piano di prevenzione. Qui va detto che se l’assunzione di responsabilità sul rispetto del codice di condotta e del piano di prevenzione da parte dei partner può certo essere una leva per estendere e rafforzare l’efficacia delle azioni di prevenzione delle violazioni, al contempo è necessario che l’impresa preveda dei sistemi di controllo e monitoraggio al fine di verificare il comportamento dei propri partner. Tale previsione può estendersi anche ai partner con i quali l’impresa intrattiene una “indirect relationship” (art. 7 p.3) ma solo con riferimento agli impatti negativi che non possono essere impediti o mitigati. Così operando si introducono delle differenziazioni che potrebbero indurre comportamenti opportunistici nelle imprese nonché sollevare ulteriori dubbi e questioni sulla portata dell’obbligo di due diligence.
[1] OECD Guidelines for Multinational Enterprises, 2011.
[2] OHCHR, UN Guiding Principles on Business and Human Rights, 2011.