Il crocifisso nelle aule scolastiche e il divieto di discriminazione in ragione della religione

3 Maggio 2021

Silvia Borelli

Professoressa associata di Diritto del lavoro, Università degli Studi di Ferrara

Il 18 ottobre 2020 (ord. n. 19618) [1], la Cassazione ha rimesso al Primo Presidente della Cassazione per l’assegnazione alle Sezioni unite, il caso di un docente di un istituto professionale di Stato a cui era stata applicata una sanzione disciplinare per avere rimosso, durante lo svolgimento delle proprie lezioni, il crocifisso affisso nell’aula scolastica. 

Nel caso di specie, la decisione di esporre il crocifisso non adempieva a un obbligo di natura regolamentare (gli artt. 119 r.d. 1927/1928 e 118 r.d. 965/1924 riguardano le sole scuole elementari e medie inferiori). Nell’istituto professionale in cui lavorava il professore, l’affissione del crocifisso nelle aule era stata deliberata dall’assemblea degli studenti, e poi imposta all’intero corpo docente, con ordine di servizio, dal dirigente scolastico.

Per comprendere la vicenda oggetto dell’ordinanza in commento è importante delineare in maniera corretta la “topografia del conflitto” (R. Bin, Critica della teoria dei diritti, Franco Angeli, 2018, p. 34). Questo passaggio è fondamentale per la miriade di decisioni che si sono occupate del crocifisso, e in generale dell’esposizione di simboli religiosi. 

Il primo precedente, ingombrante sia per l’autorevolezza del giudice che lo ha espresso, sia perché su di esso sono basate le pronunce dei giudici di merito, è la decisione della Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo sul caso Lautsi (C. edu 18 marzo 2011, ricorso n. 30814/06, Lautsi e altri c. Italia che ha riformato la sentenza della Seconda Sezione della Corte del 3 novembre 2009)In Lautsi, la ricorrente lamentava la violazione dell’art. 2 del Protocollo n. 1, ossia del diritto dei genitori di assicurare l’educazione e l’insegnamento dei propri figli conformemente alle loro convinzioni religiose e filosofiche, letto alla luce dell’art. 9 CEDU che garantisce la libertà religiosa. Sia la Seconda Sezione che la Grande Chambre si sono invece rifiutate di affrontare la vicenda nell’ambito dell’art. 14 CEDU (C. edu 18 marzo 2011, ricorso n. 30814/06, Lautsi e altri c. Italia, § 81).

Di conseguenza, il fatto oggetto dell’ordinanza della Cassazione è diverso da quello giudicato in Lautsi: il caso di specie riguarda infatti la presunta violazione del diritto a non subire discriminazioni in ragione della religione e deve essere risolto sulla base dei serrati passaggi argomentativi del sindacato antidiscriminatorio (su cui v. La tutela antidiscriminatoria. Fonti, strumenti, interpreti, a cura di M. Barbera e A. Guariso, Giappichelli, 2019). 

Nella medesima prospettiva, non può essere attribuito troppo peso alla decisione delle Sezioni Unite della Cassazione relativa al caso del magistrato che si rifiutava di tenere udienza fino a quando non fossero stati rimossi, da tutte le aule del Tribunale, i crocifissi (Cass., S.U., 14 marzo 2011, n. 5924). In quella vicenda, per rispettare il diritto del giudice a non subire discriminazioni in ragione della religione, era stata predisposta, all’interno del Tribunale, un’aula giudiziaria in cui il crocifisso era stato rimosso (Cass., S.U., 14 marzo 2011, n. 5924). Come precisato dalla Cassazione, il magistrato in questione non invocava dunque la violazione del diritto a non subire discriminazioni, ma richiedeva il rispetto del generale principio di laicità dello Stato.

Nell’ambito del sindacato antidiscriminatorio, è necessario, in primo luogo, chiarire se il fattore protetto (la religione) è pertinente e a che tipo di discriminazione (diretta o indiretta) siamo di fronte.

Quanto al primo profilo, occorre osservare che la vicenda scaturisce dal rifiuto di un docente di svolgere la propria attività nelle aule in cui è affisso un crocifisso. Quest’ultimo è, indubitabilmente, «un simbolo fondamentale della religione cristiana» (Cass., S.U., ord. 10 luglio 2006, n. 15614). La stessa Corte europea dei diritti dell’uomo, pur ritenendo che l’esposizione di tale simbolo non fosse di per sé sufficiente a denotare un processo di indottrinamento da parte dello Stato, ha sempre affermato che il crocifisso è innanzitutto un simbolo religioso (C. edu 18 marzo 2011, ricorso n. 30814/06, Lautsi e altri c. Italia, § 66 e 71).

Tale conclusione non può essere messa in discussione per il fatto che la giurisprudenza amministrativa ha riconosciuto nel crocifisso anche un simbolo di valori, quali la tolleranza, il rispetto reciproco, la solidarietà, che ispirano il nostro ordine costituzionale (C. Stato, 13 gennaio 2006, n. 556). È indubbio che il crocifisso, quale emblema della religione cristiana, rappresenti i valori connessi a tale credo; ma, appunto, ciò è una conseguenza del fatto che il crocifisso è un simbolo religioso.

Il secondo punto da chiarire riguarda il tipo di discriminazione a cui ci troviamo di fronte. Nel caso di specie, a un professore ateo, così come a tutti i docenti non cattolici, era stato imposto di svolgere le proprie lezioni alla presenza di un simbolo della religione cattolica. L’ordine di servizio del dirigente scolastico era dunque direttamente basato su un fattore protetto: prescriveva infatti di esporre un simbolo religioso nelle aule. Ai fini della qualificazione come discriminazione diretta è del tutto irrilevante che l’ordine di servizio sia stato rivolto all’intero corpo docente.

Un provvedimento basato su un fattore protetto può configurare una discriminazione diretta solo se dà luogo a un trattamento svantaggioso per una persona o un gruppo di persone (C. giust. 22 gennaio 2019, C-193/17, Cresco Investigation). Nel caso di specie, i giudici di merito hanno negato la discriminazione in quanto hanno ritenuto che il professore non abbia subito alcuno svantaggio: il dirigente scolastico infatti non aveva imposto ai docenti «di prestare ossequio ai valori della religione cristiana e di partecipare a cerimonie con carattere religioso». Anche su questo punto, i giudici di merito fanno ricorso alla sentenza Lautsi

Come già osservato, nella vicenda in esame è in gioco il diritto a non subire discriminazioni a causa della religione, ed è indubbio che il dirigente scolastico, imponendo di svolgere la propria attività all’interno di aule in cui è esposto un crocifisso, ha leso tale diritto. L’esposizione al crocifisso ha infatti costretto i docenti non-cattolici «a svolgere l’attività di insegnamento in nome di valori non condivisi, con conseguente lesione di quella libertà di coscienza che il datore di lavoro è tenuto a salvaguardare ogniqualvolta la prestazione possa essere utilmente resa con modalità diverse, che quella libertà garantiscono» (Cass., ord. 18 settembre 2020, n. 19618). Ogni datore di lavoro è dunque tenuto ad astenersi da irragionevoli condotte lesive della libertà religiosa; tale dovere di non interferenza è ancora più marcato nei confronti dei docenti della scuola pubblica in relazione alla libertà di insegnamento (art. 1 d. lgs. 298/1994) che deve essere loro garantita.

Nell’ambito della scuola pubblica, la libertà di insegnamento deve poi raccordarsi al carattere laico di tale istituzione, che deve garantire un modello educativo aperto (T. Brescia 29 novembre 2010, n. 2798). Per il docente della scuola pubblica il diritto a non subire discriminazioni in ragione della religione nello svolgimento della propria attività è dunque connesso al principio di laicità dello Stato, inteso come «tutela del pluralismo, a sostegno della massima espansione della libertà di tutti, secondo criteri di imparzialità» (C. cost. 7 aprile 2017, n. 67). 

Il fatto che l’ordine di servizio fosse stato emanato a seguito di una delibera dell’assemblea di classe non ha, nel caso di specie, alcun rilievo (in senso contrario v. TAR Lombardia, sez. Brescia, 22 maggio 2006, n. 603). Invero, seppur l’art. 2 d. lgs. 297/1994 impone che la promozione della piena formazione della personalità degli alunni avvenga nel rispetto della loro coscienza morale e civile, il rispetto di tale coscienza trova però un limite, invalicabile, nell’obbligo di rispettare i diritti soggettivi altrui, oltre ai principi fondamentali dell’ordinamento, quali la laicità dello Stato. Un’assemblea di classe non può, dunque, deliberare la violazione del diritto a non subire discriminazioni a causa della religione. 

Peraltro, in tema di libertà religiosa, la Corte costituzionale (10 novembre 1997, n. 329; 18 ottobre 1995, n. 440) ha avuto modo di chiarire che nessun rilievo può essere attribuito al criterio quantitativo, perché si impone «la pari protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede, quale che sia la confessione religiosa di appartenenza». D’altro canto, il diritto antidiscriminatorio svolge proprio una funzione antimaggioritaria, a tutela «dei gruppi di minoranza segnati dal marchio della differenza» (M. Barbera, Il principio di eguaglianza nel sistema europeo “multilivello”, in I diritti fondamentali in Europa. Les droits fondamentaux en Europe. The fundamental rights in Europe, a cura di E. Paciotti, Torrossa, 2012, p. 63).

L’ordine di servizio del dirigente scolastico di esporre in tutte le aule il crocifisso ledeva perciò il diritto dei docenti non cattolici a non subire discriminazioni a causa della religione. Di conseguenza, il professore poteva sollevare l’eccezione di inadempimento (art. 1460 c.c.) e rifiutare di svolgere le proprie lezioni in presenza del crocifisso. Inoltre, la sanzione disciplinare inflittagli era del tutto immotivata e il relativo provvedimento va disapplicato. Il giudice dovrebbe altresì ordinare l’adozione di un piano di rimozione delle discriminazioni accertate, dovrebbe cioè garantire al professore la possibilità di svolgere le proprie lezioni in un’aula priva del crocifisso.Va infine chiarito che, mediante il giudizio antidiscriminatorio, il giudice non è chiamato a risolvere la questione dell’esposizione del crocifisso nei locali ove sono prestati servizi pubblici o svolte funzioni pubbliche, ma deve ‘semplicemente’ tutelare, nella fattispecie concreta, il diritto a non subire discriminazioni. Un intervento limitato, ma indispensabile per garantire i diritti della persona, nel quadro di una questione di ordine ben più generale che il legislatore – e non il giudice – dovrebbe risolvere, «in ragione delle sempre più pressanti esigenze di tutela delle minoranze religiose, etniche e culturali in un ordinamento ispirato ai valori della tolleranza, della solidarietà, della non discriminazione e del rispetto del pluralismo» (così Cass., S.U., ord. 10 luglio 2006, n. 15614).


[1] Per un commento più esteso all’ordinanza v. RIDL 2021, 1, II, p. 3.

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