Maria Luisa Vallauri
Professoressa associata di Diritto del lavoro, Università di Firenze
12 gennaio 2023
Il decreto legislativo 30 giugno 2022, n. 105, entrato in vigore il 13 agosto 2022, ha sciolto l’attesa per l’attuazione della Direttiva (UE) 1158/2019 relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza.
La ratio dell’intervento europeo va rinvenuta nei Considerando della Direttiva stessa, dove le misure di riequilibrio delle responsabilità di cura verso i familiari sono intese come strumenti per conseguire la parità di genere, superando la sottorappresentanza delle donne nel mercato del lavoro e colmando il divario di reddito e retributivo fra uomini e donne.
I contenuti del provvedimento in esame dovranno essere valutati, pertanto, rispetto alla loro capacità di conseguire in modo efficace il suddetto obiettivo, oltre che rispetto alla corretta attuazione della Direttiva.
L’intervento di recepimento delle disposizioni della Direttiva tocca istituti disciplinati da diverse fonti che vengono parzialmente modificate: il d.lgs. n. 151/2001, la l. n. 104/1992, la l. n. 81/2017, il d.lgs. n. 81/2015, la l. n. 53/2000.
Esso, inoltre, stabilisce a carico di INPS e INAPP l’onere di realizzare interventi di promozione delle misure a sostegno dei genitori e dei prestatori di assistenza, attraverso l’allestimento di nuovi servizi digitali e di strategie di informazione, e un monitoraggio sull’utilizzo dei congedi e sulla loro interazione, da riversare in una relazione annuale (artt. 7 e 8, d.lgs. n. 105/2022). La previsione è funzionale alla redazione da parte della Commissione europea, entro il 2 agosto 2027, di una relazione sullo stato di attuazione della Direttiva, in particolare per quanto riguarda la parità di genere (art. 18, Direttiva (UE) 1158/2019). La mancata destinazione da parte del legislatore nazionale di risorse economiche a sostegno di queste iniziative, da realizzare «nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente e comunque senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica», non lascia presagire niente di buono rispetto alla incisività ed efficacia che potranno avere queste iniziative, che verosimilmente saranno eseguite in modo minimale per assolvere alle richieste provenienti da Bruxelles, mentre per scardinare il modello persistente di doppia presenza delle donne e l’impari distribuzione delle responsabilità parentali e familiari, che limita la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e, dunque, la loro autonomia, sarebbe decisiva la promozione di una forte operazione culturale, che passa anche dallo studio critico e dalla diffusione delle informazioni sull’impiego dei congedi e delle forme flessibili di lavoro.
Limitando l’attenzione alle misure a sostegno dei genitori lavoratori, si può osservare che alla Direttiva è stata offerta un’attuazione minimale e non si è colta l’occasione per rendere più efficaci istituti già presenti nel nostro ordinamento e oggetto di rivisitazione, in particolare il congedo obbligatorio di paternità e il congedo parentale, né per rafforzare il diritto dei genitori lavoratori a poter beneficiare di condizioni di lavoro più flessibili e adeguate al raggiungimento dell’equilibrio fra impegni lavorativi e impegni familiari e parentali.
Al centro dell’attenzione, anche mediatica, sta sicuramente l’intervento che riguarda il “congedo di paternità obbligatorio”, introdotto in via sperimentale dalla legge Fornero, reso strutturale dalla legge finanziaria 2022, l. n. 234/2021, e adesso (finalmente) inglobato nel d.lgs. n. 151/2001 con l’aggiunta del nuovo art. 27-bis. Il congedo mantiene inalterata la sua fisionomia, quella cioè di un permesso di dieci giorni (sic!), elevati a venti nel caso di parto plurimo, indennizzati al 100%, che il padre lavoratore può chiedere di fruire, in modo continuativo o frazionato (ma non su base oraria), dando un preavviso di almeno cinque giorni al datore di lavoro. Esso è fruibile contestualmente al godimento da parte della madre del congedo di maternità, in un arco di tempo che va da due mesi prima della data presunta del parto ai cinque mesi successivi, e può essere fruito mutatis mutandis negli stessi termini anche in caso di adozione o affidamento. Il regime sanzionatorio che accompagna il congedo determina in capo al datore di lavoro un obbligo di consentirne la fruizione al lavoratore che ne faccia richiesta, non anche un obbligo di sospenderlo dal lavoro per il tempo previsto, al pari di quanto previsto invece per la madre biologica in forza del divieto di cui all’art. 16. Dal punto di vista della sua “obbligatorietà”, pertanto, questo congedo di paternità non si differenzia dal congedo parentale ex art. 32, né dal congedo di paternità ex art. 28 (rinominato “congedo di paternità alternativo”) che, nonostante l’inasprimento della sanzione comminata al datore di lavoro renitente, rimane fruibile discrezionalmente dal padre quando la madre non possa prendersi cura del minore nei primi mesi di vita.
Se è vero che la previsione, così come impostata, soddisfa le scarne condizioni previste dalla Direttiva (art. 4), essa non mi pare in grado di contrastare le ragioni (per lo più culturali) che finora hanno impedito o ostacolato il ricorso da parte dei padri (soprattutto nel settore privato) sia al congedo parentale che al congedo di paternità obbligatorio, aprendo così la strada al fallimento di una misura che, se diversamente congegnata, avrebbe potuto innescare il cambiamento di quel modello di distribuzione delle responsabilità parentali ancora fortemente maternalistico e, quindi, ampiamente responsabile della scarsa partecipazione delle donne dal mercato del lavoro.
Rispetto al congedo parentale, il decreto prevede un incremento della durata del congedo coperto dall’indennità, che da sei mesi sale a nove mesi, tre dei quali – in attuazione della Direttiva – divengono intrasferibili fra padre e madre, ciascuno dei quali, pertanto, potrà fruire fino a un massimo di sei mesi di congedo indennizzato. L’indennità, inoltre, può essere fruita per tutto il tempo durante il quale può essere fruito il congedo, vale a dire fino al compimento del dodicesimo anno di vita del bambino o fino al dodicesimo anno dall’ingresso del minore adottato in famiglia, in caso di adozione nazionale, o in Italia, in caso di adozione internazionale. L’indennità è dovuta, inoltre, per tutto il periodo di prolungamento del congedo parentale ex art. 33, quando cioè il minore sia portatore di disabilità. Si prevede, poi, che i periodi di congedo non comportino più la riduzione delle ferie, dei riposi, della tredicesima mensilità, con l’unica eccezione (discriminatoria) degli emolumenti connessi all’effettiva presenza in servizio.
Pur senza negare i (limitati) vantaggi che le suddette novità introducono per i genitori lavoratori, a me pare che esse non saranno in grado di contribuire al raggiungimento dell’obiettivo perseguito dalla Direttiva di realizzare la parità di genere attraverso l’equa ripartizione delle responsabilità di assistenza tra uomini e donne, perché ciò che fino a oggi ha ampiamente contribuito a scoraggiare l’impiego del congedo parentale da parte dei padri è stata l’esiguità dell’indennità che lo accompagna, pari al 30% della retribuzione, che è rimasta tale. Un innalzamento dell’indennità (ad esempio all’80% della retribuzione) farebbe, invece, la differenza, perché libererebbe le scelte compiute all’interno della coppia genitoriale almeno dai condizionamenti di tipo economico. La giusta preoccupazione di non sacrificare il reddito da lavoro più consistente – ovverosia, nella maggior parte dei casi, ancora quello del padre, per via del perdurante divario salariale uomo-donna – non condizionerebbe più la decisione relativa alla fruizione del congedo e padre e madre potrebbero confrontarsi su un terreno paritario rispetto alla distribuzione del tempo di lavoro e del tempo di cura. Una simile soluzione necessita di considerevoli risorse economiche, che il soggetto politico dovrebbe decidere (almeno) di cominciare a mettere a bilancio se davvero avesse intenzione di provare a risolvere la questione (troppo trascurata) della scarsa partecipazione delle donne al mercato del lavoro.
Del tutto carente, infine, è la parte del decreto che recepisce le indicazioni contenute nell’art. 9 della Direttiva, relativamente alla disciplina di “modalità flessibili di lavoro” per agevolare i genitori lavoratori e i prestatori di assistenza. Il legislatore delegato, infatti, ha scelto di intervenire in modo non organico, senza riconoscere un diritto potestativo del lavoratore e della lavoratrice alla modifica, anche solo temporanea, dell’organizzazione del lavoro o quantomeno un obbligo in capo al datore di lavoro di motivare il rifiuto di dar seguito alla relativa richiesta avanzata.
Si segnala, in ultimo, che l’art. 1 del d.lgs. in esame estende gli istituti ivi regolati anche ai lavoratori dipendenti delle pubbliche amministrazioni. Ciò significa, in particolare, che finalmente anche i padri dipendenti di pubbliche amministrazioni avranno diritto di fruire del congedo di paternità obbligatorio, dal quale sono rimasti esclusi nei dieci anni che ci separano dalla sua istituzione a causa della mancata emanazione della Circolare della Funzione pubblica prevista dalla stessa legge Fornero.
Neanche all’orizzonte si intravede la questione del riconoscimento del diritto ai congedi parentali per il secondo genitore equivalente, al quale invece fa riferimento la Direttiva, che, però, subordina l’estensione delle varie prerogative alla condizione che il diritto interno riconosca tale figura. Una remora, quest’ultima, che consente al legislatore italiano di non intervenire e di continuare a lasciare privi di tutele i tanti genitori d’intenzione, che in famiglie omogenitoriali si prendono cura di minori ai quali sono legati da amore parentale, e che possono contare solo sulla arguzia di chi amministra la giustizia (v. Trib. Milano ord. 12.11.2020 est. Atanasio e Corte App. Milano, sent. 453/2021 est. Pattumelli).