Immigrazione, diseguaglianze, povertà: la prospettiva del diritto*

Marzia Barbera

Professoressa ordinaria di Diritto del lavoro, Università degli Studi di Brescia

* Intervento al CNEL alla presentazione del Rapporto Istituzioni: uguaglianza, diritti sociali, immigrazione – ProgettoL.A.W. – Leverage the Access to Welfare, 28 marzo 2023, curato da  ASGI e dal Centro studi Medì di Genova e cofinanziato dall’Unione Europeo.

Il Rapporto Istituzioni: uguaglianza, diritti sociali, immigrazione, che conclude Progetto di ricerca L.A.W. – Leverage the Access to Welfare, curato da  ASGI e dal Centro studi Medì di Genova, solleva questioni di grande interesse nella prospettiva del diritto antidiscriminatorio e del diritto in generale.  

La prima riguarda la portata stessa del principio di eguaglianza e non discriminazione e nasce dalla ricostruzione dei primi interventi della Corte costituzionale in materia di welfare e migranti, che verteva sulla legittimità di quell’orientamento legislativo volto a restringere ai soli lungo soggiornanti le prestazioni di welfare, un orientamento inaugurato nel 2000 e che ha avuto le sue ultime espressioni nel 2022, quando è stato finalmente superato dall’intervento del legislatore.

La Corte Costituzionale, ricorda il Rapporto, ha escluso la legittimità del requisito del permesso di lungo periodo per le prestazioni collegate a una condizione di invalidità sulla base dell’argomento che vi è un nucleo essenziale di diritti sociali che non può essere scalfito da limitazioni di alcun tipo, ne in ragione del censo (avere cioè un reddito minimo per poter beneficiare di aiuti dallo Stato) né in ragioni di condizioni temporali (essere in Italia da un determinato periodo di tempo).

Afferma la Corte (Corte costituzionale 28 maggio 2010, n. 187):

«È illegittimo escludere dal diritto all’assegno mensile di invalidità gli stranieri non lungo soggiornati perché l’assegno «si iscrive nei limiti e per le finalità essenziali che la Corte costituzionale, anche alla luce degli enunciati della Corte di Strasburgo, ha additato come parametro di ineludibile eguaglianza di trattamento tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti».

Il Rapporto commenta in questo modo la sentenza:

«Questa ricostruzione ha avuto il pregio di smontare in parte le limitazioni, ma ha diffuso la convinzione che solo le prestazioni attinenti la disabilità possono rientrare nel “nucleo essenziale”, tanto è vero che la prima volta che la Corte ha esaminato una prestazione sicuramente essenziale ma estranea al tema della disabilità – l’assegno sociale, pagato alle persone povere con oltre 67 anni di età – ha deciso diversamente, ritenendo cioè legittimo il requisito del permesso di lungo periodo; lo stesso è stato poi deciso per il reddito di cittadinanza. L’impressione che se ne trae è che l’uscita dalla condizione di povertà fatichi a entrare nell’ambito del “nucleo essenziale” di diritti sociali.» (sottolineatura mia).

Questa osservazione ricorda un po’ il dibattito che seguì il famoso caso Brown. C’è chi pensa che l’essersi concentrati allora sulla lotta per i diritti civili abbia distratto da quella, più radicale, per una maggiore giustizia sociale. E ricorda anche uno dei limiti ben conosciuti del diritto antidiscriminatorio: la sua selettività. Gli stranieri in quanto stranieri sono protetti, gli stranieri in quanto poveri e i poveri in generale no, perché la povertà non è una categoria del diritto antidiscriminatorio.

Un secondo limite emerge sempre dal Rapporto, qualche pagina più avanti, e riguarda questa volta la portata limitata dell’affermazione del principio di non discriminazione da parte di una pronuncia giudiziale:

«L’ASGI si è attivata per far valere, sia attraverso azioni di advocacy nei confronti dell’INPS sia promuovendo contenzioso, il diritto alla parità di trattamento e dunque il diritto di ottenere le medesime prestazioni riconosciute alle persone italiane (e a quelle straniere lungo soggiornanti). Le azioni di advocacy hanno ottenuto (almeno fino al 2022 quando è entrata in vigore la prestazione dell’assegno unico universale di cui si dirà a breve) risultati scarsi o nulli; le azioni giudiziarie hanno invece dato un risultato del tutto particolare e forse unico nella storia giudiziaria…..Il sistema si è quindi “assestato” seppur in forma patologica perché solo chi promuoveva una causa riusciva ad ottenere la prestazione. Ciò ha assegnato un ruolo fondamentale ad associazioni e sindacati perché in assenza di un loro supporto informativo e di assistenza, nessuno poteva vedere attuata la parità di trattamento. (sottolineatura mia).

Questa situazione è durata quasi 10 anni (a seconda della data di introduzione della prestazione) fino a che non è intervenuta la Corte costituzionale con le sentenze n. 67/2022 (in materia di assegni al nucleo familiare) e 54/2022 (in materia di bonus bebè e assegno di maternità). Quasi contemporaneamente il Governo ha varato l’assegno unico universale e la riforma dell’art. 41 TU immigrazione: con queste norme è stata finalmente superata, dal marzo 2022, l’esclusione dei titolari di permesso unico lavoro.»

 In sostanza sembrerebbe che solo la volontà politica possa effettivamente superare una condizione di diseguaglianza. Fino a che non interviene una decisione politica, il diritto antidiscriminatorio garantisce solo un’eguaglianza “frattale”, un’eguaglianza frastagliata, discontinua.

Da ciò deriva un terzo limite che riguarda l’efficacia del diritto antidiscriminatorio come tecnica di controllo della discrezionalità politica e che riguarda questa volta la reazione politica a tale controllo.  A questo proposito il Rapporto ci dice una cosa molto importante su una delle condizioni di sistema nel funzionamento della tecnica antidiscriminatoria e cioè la presenza o meno di un atteggiamento di resistenza del sistema politico

Si legge nel Rapporto:

Alcune Regioni però (in particolare il Friuli) stanno resistendo alle pronunce giudiziali con artifici di ogni genere, da ultimo addirittura introducendo nel Regolamento regionale modifiche fittizie per eludere le pronunce dei giudici: un caso interessante di conflitto tra politica e giustizia.

E ancora: «Il fatto che molti di questi vincoli [all’accesso al welfare da parte dei migranti] siano poi stati sanzionati e rimossi in sede giudiziaria, paradossalmente, poco conta; la sfasatura temporale che intercorre tra «introduzione, ricorso e rimozione» del criterio discriminatorio pone in secondo piano la sconfitta, mentre resta in primo piano l’obiettivo principale per il quale sono stati introdotti: comunicare «tutela» nei confronti dei portatori locali (e nativi) di interessi, e rassicurarli.»

In sostanza, pur agendo come tecnica antimaggioritaria, il diritto antidiscriminatorio  può avere scarsa capacità di modificare effettivamente gli indirizzi della maggioranza.

Vorrei ora discutere questi tre limiti e ragionare sul fatto se esista e quale sia un’alternativa praticabile alla strategia antidiscriminatoria.

1. Comincerei dal carattere selettivo della tutela antidiscriminatoria e dalla sua capacità di contrastare effettivamente le diseguaglianze sociali più profonde e, in particolari, quelle che nascono dalla povertà. La tutela antidiscriminatoria nasce come tutela selettiva perché risponde a specifici fenomeni storici di diseguaglianza, percepiti come ingiusti dal diritto, che talvolta anticipa, talvolta segue la coscienza sociale di tali fenomeni.  Il processo di identificazione dei fattori di discriminazione ha sempre avuto un significato storico e contingente. In sostanza, il diritto fa sempre una diagnosi sociale quando etichetta una classificazione come discriminazione. L’elenco dei fattori vietati rinvia immediatamente all’esistenza di fenomeni storici di stigmatizzazione e di negazione del valore intrinseco della persona umana; a strutture politiche e sociali diseguali; a una disparità di potere, di capacità di mobilitazione, di rappresentazione degli interessi di gruppo; a situazioni radicate di svantaggio e vulnerabilità sociale.

Questo carattere storico, contestuale della tutela antidiscriminatoria spiega anche il suo carattere selettivo; così come lo fa l’origine valoriale dei divieti di discriminazione, che rinvia al significato liberale di eguaglianza, quella per cui non tutte le diseguaglianze sono inaccettabili ma solo quelle che negano l’eguale valore della persona e si basano su caratteristiche ascritte da altri. In quest’ottica differenze di reddito o di posizione sociale sono compatibili con il valore dell’eguaglianza. In più i poveri sono difficilmente riconducibili alle categorie del diritto antidiscriminatorio, in particolare all’idea di “gruppi di minoranza”: i poveri non rappresentano una minoranza distinguibile e stabile, anzi è proprio il loro essere diffusi e variabili nel numero e nella composizione che ne rende difficile la mobilitazione e li rende deboli nel sistema di rappresentanza politica.

Le categorie proprie del diritto antidiscriminatorio si adattano poco, dunque, a combattere fenomeni pervasivi di povertà. È vero che la prospettiva delle discriminazioni intersezionali è proprio quella di connettere forme diverse di discriminazioni e di far cogliere un fatto che le categorie tradizionali tendono a ignorare e cioè, che le persone hanno identità multiple e che le diverse identità non sono omogenee. Ma si tratta di una prospettiva che solleva una serie di questioni, su cui non posso qui soffermarmi. Mi limito a dire che una delle ragioni per cui l’idea di intersezionalità può risultare problematica è che solleva il problema della misura in cui categorie e tipologie di soggetti possano moltiplicarsi e di come la legge possa gestire questa proliferazione. 

In realtà la lotta alla povertà dovrebbe essere affrontata con rimedi universalistici, che guardano al bisogno.  È ciò che è avvenuto con il RDC (l. 4/2019), una misura di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale.

Ma la questione del reddito di cittadinanza mostra che ci sono sempre dei problemi con i rimedi universalistici: qualcuno può restare fuori se, per qualche motivo, non viene considerato parte, a pieno titolo, della comunità. Ci sono due i due requisiti che hanno finora fortemente ostacolato l’accesso delle persone straniere al RdC e cioè: 1) la richiesta del permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo 2) la residenza da almeno 10 anni (di cui gli ultimi 2 continuativi) sul territorio italiano

E’ in questi casi che risalta in  modo particolare la funzione del diritto antidiscriminatorio, è cioè il suo essere uno strumento diagnostico delle diseguaglianze sociali, e risalta anche il ruolo cruciale giocato dal lavoro di advocacy e dal contezioso strategico descritto dal Rapporto. 

Si pensi alle decisioni nelle quali la Corte costituzionale ha superato la teoria del “nucleo essenziale” di cui prima si è detto, facendo invece riferimento al criterio della “prevalenza del bisogno” nel senso che è incostituzionale, perché irragionevole, introdurre nelle leggi regionali che riguardano particolari condizioni di bisogno sociali (riguardanti, ad es., la casa) requisiti limitativi del tutto estranei alla valutazione del bisogno. Si può quindi considerare ad es. l’anzianità di presenza nella graduatoria (che esprime sia la durata della residenza, sia il bisogno) ma non la pregressa residenza in quanto tale requisito non ha nulla a che vedere con la condizione di bisogno della persona interessata (sentenza n. 44/2020).  Ciò vale, dice la Corte, sia per i cittadini italiani che gli stranieri. 

Ebbene, se mettiamo insieme questa affermazione con la circostanza che questo requisito, apparentemente neutro, colpisce tuttavia in misura maggiore gli stranieri, ci rendiamo conto del perché di può parlare del diritto antidiscriminatorio e del contenzioso che lo riguarda come di un mezzo capace di fornire una diagnosi molto precisa delle diseguaglianze sociali. 

Parlavo poco fa di un’eguaglianza “frattale” e dei suoi limiti. Qui vorrei invece evidenziare un’altra sua caratteristica. Dobbiamo sapere che il motivo per cui si usano i frattali è che essi permettono di affrontare problemi di fronte ai quali la matematica o la geometria tradizionali si dovevano arrestare: permettono, ad esempio, di misurare la lunghezza delle coste della Norvegia, nonostante esse siano molto frastagliate; permettono di capire come è distribuita geometricamente la materia planetaria nello spazio universale. 

Lo stesso accade con il diritto antidiscriminatorio. Permette di descrivere un’architettura sociale complessa e piena di fratture.  Non tutti i poveri si trovano a dover affrontare, oltre alla condizione di povertà, gli altri ostacoli che incontrano gli stranieri nel nostro paese. Nei casi in cui associazioni e individui hanno sfidato in tribunale gli autori di diversi casi di discriminazione istituzionale contro i migranti, lo svantaggio subito da questi ultimi nasceva certamente da diversi fattori strutturali (inclusa la povertà o la scarsità di mezzi), ma ciò che risultava decisivo come fattore di svantaggio era proprio il fatto di non essere cittadini, di avere una razza o origine etnica diversa, di appartenere perciò a una minoranza non rappresentata nel processo politico, i cui interessi potevano più facilmente essere annullati dal prevalere di interessi (o anche dalla rappresentazione simbolica di tali interessi) più forti.

Per questa strada la povertà degli stranieri, dei poveri più poveri, diventa una questione evidente, una questione politica. Come ci dice il Rapporto:

 “L’ISTAT stima che nel 2021 1,9 milioni di famiglie vivessero in condizioni di povertà assoluta: il 31,3% (oltre 614 mila) di queste erano famiglie con stranieri, nonostante rappresentassero soltanto il 9% della totalità[1]. Mentre su 100 famiglie italiane quelle povere sono meno di 6, su 100 famiglie con stranieri circa 26 sono in una condizione di povertà assoluta, cioè 4 volte tanto. Il numero aumenta poi a 30 per le famiglie composte esclusivamente da stranieri. Nonostante questo divario, il reddito di cittadinanza  nel giugno 2021 “copriva” l’89% delle famiglie povere italiane, ma solo il 31% delle famiglie povere straniere”.

2. Vengo così al secondo limite. Il contenzioso strategico descritto e analizzato dalla ricerca riflette fedelmente questa realtà di diseguaglianza legata all’immigrazione e ciò in qualche modo compensa la portata limitata del singolo giudizio di discriminazione che di per se stesso riguarda solo chi ha fatto la causa e può non portare a una revisione della pratica o del criterio messi in questione.

Questo effetto di politicizzazione del contenzioso si realizza a maggior ragione nei casi in cui il contenzioso è un contenzioso strategico e ad esso si somma anche un’attività di advocacy. Quello che ci presenta il Rapporto è un caso eccezionale dell’uno e dell’altra, eccezionale sia per quel che riguarda le dimensioni, che per quel riguarda la capacità di provocare un cambiamento radicale nella giurisprudenza in termini di sensibilità e attenzione al tema e anche in termini del formarsi di un orientamento giurisprudenziale quasi sempre favorevole alle ragioni del diritto antidiscriminatorio. 

Come ci spiega il Rapporto :

«…La ricerca porta all’attenzione un dato importante e trasversale: quasi tutte le cause sono state vinte, e le istituzioni sono state ripetutamente sanzionate. L’azione di rimozione, perorata tramite iniziative prive generalmente di eco mediatica contro amministrazioni pubbliche forti delle proprie posizioni, porta quasi sempre ad un esito positivo. Le motivazioni delle Corti di giustizia sono quasi sempre le stesse, e riconducono ad un principio generale: discriminare non trova alcun fondamento nel diritto che regola la convivenza tra cittadini, compresi quelli di origine straniera.»

Questi risultati sono dovuti a una serie di condizioni, di cui una delle principali è data dalla presenza di un gruppo di giuristi dotati di un know how sofisticato e determinati a impiegare tutte le opportunità offerte dal sistema giudico al servizio di una visione politica progressista

Tuttavia, questo esempio vincente di strategic litigation presenta un problema che il Rapporto mette bene in luce.

Si legge nel Rapporto:

«Gli avvocati hanno spesso lamentato un senso di «solitudine» per le battaglie condotte: a fronte della magnitudo del fenomeno, esprimono scoramento e perplessità in merito alla fragile consapevolezza, sia da parte della popolazione immigrata sia da parte dell’associazionismo. In altri termini, l’azione nasce principalmente da loro iniziativa – spesso il diritto discriminatorio non è neanche il loro primo ambito di impegno ma un’attività volontaria a beneficio della collettività – o, in minor misura, da segnalazioni esterne (come nel caso dei sindacati), ma non da una presa di coscienza radicata nel circuito della società civile e dei suoi vari terminali»

A cosa è dovuta questa “solitudine”? Il Rapporto cerca di dare qualche risposta.  Per esempio, è dovuta al fatto che ci sono molti casi in cui le vittime non percepiscono di essere discriminati:

«Se non conosci la materia tu pensi che di fatto la regola, seppur sia fatta così, sia una regola».

«Non è facile, se una persona straniera va ad uno sportello pubblico e gli dicono: non hai diritto lui pensa che sia davvero così».

Ma vi sono anche altre ragioni di questo sentimento di “solitudine”, anche queste accennate nel Rapporto, in particolare il fatto che rimuovere la discriminazione costa e può portare a conflitti redistributivi: 

«… Fare una battaglia per gli immigrati vuol dire togliere le case agli italiani, bloccare soldi per gli italiani, bloccare i soldi ai padroni di casa che hanno deciso di fare affitti convenzionati».

Forse un elemento di riflessione che manca riguarda il modo in cui gli avvocati conducono le loro battaglie. 

In ognuno di questi casi, esplicitamente o implicitamente e sia pure nella consapevolezza che la partita decisiva si gioca poi sul versante sociale, politico, culturale, il contenzioso strategico viene visto e agito come un processo “actor-driven”, guidato cioè dalle decisioni strategiche dei soggetti che decidono di portare l’azione in giudizio.

Ma di quali attori si parla? Nelle cause strategiche intraprese dalle associazioni, i soggetti reali di queste vicende giudiziarie si manifestano spesso solo al momento di conferire una delega o di rafforzare con la loro presenza in giudizio la legittimazione ad agire dei soggetti collettivi, ma poi scompaiono dalla scena, se si esclude il momento (ovviamente tutt’altro che secondario) in cui vi tornano per beneficiare dei vantaggi derivanti dall’esito positivo dell’azione.

Diversamente dal caso del contenzioso strategico in tema di Statuto dei lavoratori, ove almeno sussisteva un vincolo di rappresentanza, l’assenza di legami stabili tra i legali delle associazioni e i clinici da una parte, e i gruppi o singoli individui i cui diritti sono tutelati in giudizio dall’altra, vi è allora il rischio concreto che l’azione in giudizio non si trasformi in azione collettiva e che le vittorie nei tribunali non si traducano in vittorie politiche. In questi casi, ricorrere ai tribunali per superare situazioni di debolezza sociale e politica, invece di essere uno strumento ausiliario di mobilitazione sociale e azione collettiva, può diventare il loro sostituto.

Tutto ciò avviene a prezzo di qualcosa, qualcosa che Gerard López, uno dei più influenti clinici americani, ha così ben descritto anni fa nel libro Rebellious lawyering  parlando dei  civil  rights lawyers che prestavano la loro opera a favore della comunità chicana di  East Los Angeles da cui López stesso proviene. López scrive: “these activist lawyers tended to fit our needs and aspirations into preestablished frameworks that were neither animated by nor ultimately much responsive to the lives we were leading “ [2]. Questo succedeva, anzitutto, perché questi professionisti erano incapaci di scrollarsi di dosso i presupposti taciti della loro cultura giuridica. Per esempio, tendevano a pensare che la via dell’azione in giudizio fosse sempre il modo migliore di risolvere un problema e prestavano poca attenzione a vie alternative al processo; o non esploravano abbastanza la possibilità che le soluzioni migliori fossero di altro tipo, politiche o economiche; o non erano consapevoli del fatto che il ricorso al processo escludeva la partecipazione attiva dei singoli e delle comunità coinvolte. O, all’opposto, pensavano che risolvere un problema politicamente significasse dedicarsi a estenuanti incontri e trattative con burocrati locali o politici, senza, però, includere negli incontri i loro rappresentati o altri componenti della comunità locale.

Di alcuni di questi problemi il Rapporto, in realtà, si mostra avvertito:

Si legge nel Rapporto:

«La capacità di individuare la discriminazione è uno stimolo importante per la lotta alle discriminazioni, rendendo protagonisti i diretti e le dirette interessati/e. La mancata percezione consolida ingiustizie e disuguaglianze, e se forse contribuisce a mantenere la pace sociale oggi, prepara il terreno per più gravi lacerazioni e conflitti sociali in futuro. Minoranze permanentemente discriminate e segregate rappresentano un rischio per la società nel suo insieme.

Consapevolezza della discriminazione. In questo caso le minoranze diventano avvertite delle discriminazioni che subiscono: non è ancora la soluzione del problema, ma un passo necessario. Qui le associazioni e comunità di persone immigrate assumono un ruolo di apripista, di veicolo di diffusione di una cultura antidiscriminatoria, di stimolo nei confronti delle istituzioni pubbliche e della società ricevente. Un problema spesso sollevato nel contesto italiano è quello della fragilità dell’associazionismo delle persone immigrate, quindi del suo rafforzamento e del conseguimento di una maggiore capacità di dare voce agli interessi dei residenti di origine straniera».

Dunque, l’esperienza nordamericana ma anche la nostra mostrano che l’uso “ribelle” del diritto deve essere radicato nel mondo che si cerca di cambiare, che nella pratica del diritto orientata alla giustizia si deve riflettere anche la pratica sociale dei soggetti deboli, subordinati, vulnerabili che si vogliono rappresentare, che i giuristi devono diventare capaci di valutare l’interazione fra l’approccio legale e l’approccio sociale e politico ai problemi e capire, come conclude López “how to be part of coalitions, as well as how to build them”.  

3. E veniamo al terzo punto critico: la resistenza da parte delle istituzioni. 

Dal Rapporto:

«[La ricerca] rivela un aspetto cruciale della discriminazione istituzionale italiana: l’importanza delle politiche locali di esclusione nei confronti di persone immigrate, rifugiate, minoranze religiose stigmatizzate, che rappresenta un effetto imprevisto dell’ampia autonomia di cui dispongono gli enti locali e l’importanza della resistenza da parte delle istituzioni…..

….Si tratta … di politiche volte a marcare i confini dell’appartenenza legittima alla comunità locale, rafforzando un dualismo tra i membri a pieno titolo (gli insiders, coincidenti con la popolazione autoctona o comunque di nazionalità italiana) e gli outsiders, il cui diritto di residenza tende a essere ridefinito in forme limitate e condizionali.

….La discriminazione istituzionale che il giudice va a sanzionare non è altro che la riproduzione pratica ed oggettiva di un pregiudizio condiviso e socialmente accettato…nei fatti è l’idea che la persona straniera, seppur qui, non faccia parte della comunità, e se non ne fai parte non puoi accedere alle risorse della comunità»

Il diritto antidiscriminatorio può essere uno scudo contro questa «stratificazione sociale», ma non può essere una spada, può offrire una difesa dalle forme più arbitrarie di esercizio della discrezionalità del potere pubblico ma non può garantire la partecipazione a pieno titolo e su un piano di eguaglianza alla comunità, perché non risolve il problema di fondo che è per l’appunto l’esistenza di questo dualismo  loro/noi,  «in un rapporto immutato di dominanza», in cui l’attore politico  ha solo da guadagnare e niente da perdere sul piano della rappresentanza, perché nella maggior parte dei casi non paga alcun prezzo per il fatto di svantaggiare sistematicamente una parte della popolazione, dato che questa non ha voce nell’arena politica. 

4. E vengo così all’ultima delle questioni poste dal Rapporto, e cioè come gioca in questi temi la questione della cittadinanza, l’essere cioè stranieri o cittadini? Lo status civitatis rimane il discrimine per una cittadinanza sociale piena?

Io direi che occorre intendersi sul concetto di cittadinanza a cui ci si rifà. Pensiamo, per esempio, all’uso ripetuto della parola “Nazione” invece di Paese o Repubblica o Stato membro (parlando dell’Unione europea) nel linguaggio della classe politica oggi al governo. Si tratta di un linguaggio per niente causale, così come non è causale l’omissione del richiamo alla Resistenza come momento fondativo della Repubblica.  Una cultura e un’ideologia e di destra, a lungo relegata ai margini, tenta di imporsi come egemone. Vediamo allora che cosa implica l’uso della parola “Nazione” in questa nuova narrazione. Nonostante i richiami all’esperienza risorgimentale e all’unità d’Italia, si tratta di un uso che tradisce i valori risorgimentali, quando la “Nazione” non era sentita non come un valore esclusivistico, a danno degli altri, ma come un mezzo per procedere con gli altri (alla “Giovine Italia” di Mazzini seguì la “Giovine Europa), come una comunità tenuta insieme da un’educazione comune, da un diritto comune, da fini comuni. Nel linguaggio della nuova destra sovranista la “Nazione” rinvia a caratteri fisici e culturali permanenti e immutabili, a un’entità omogenea, a una comunità di destino, alla difesa dei confini, al nazionalismo come valore unificante, a uno “jus sanguinis” che deve restare quanto meno possibile contaminato da influssi stranieri. Di qui l’opposizione a ogni modifica della legge sulla cittadinanza, ma anche la sostanziale indifferenza alla tragedia umanitaria che si è consumata e si sta ancora consumando nei nostri mari.

Questa idea di comunità nazionale contrasta profondamente con l’idea di cittadinanza che si è andata affermando in larghe parti della società civile e nel diritto, più vicina alla realtà di un Paese di immigrazione come l’Italia, un’idea di cittadinanza legata alla partecipazione alla vita collettiva

Ritroviamo questa idea di cittadinanza in alcune sentenze della Corte costituzionale 

Già in  un passaggio della sentenza n. 172/1999, riferendosi agli apolidi, tenuti anch’essi all’assolvimento dell’obbligo di leva, esistente a quel tempo, la Corte aveva osservato che vi è una «comunità di diritti e di doveri, più ampia e comprensiva di quella fondata sul criterio della cittadinanza in senso stretto», una comunità che «accoglie e accomuna tutti coloro che, quasi come in una seconda cittadinanza, ricevono diritti e restituiscono doveri, secondo quanto risulta dall’art. 2 della Costituzione là dove, parlando di diritti inviolabili dell’uomo e richiedendo l’adempimento dei corrispettivi doveri di solidarietà, prescinde del tutto, per l’appunto, dal legame stretto di cittadinanza».

La Corte è tornata ancora su questa concezione di comunità come «comunità di accoglienza», nella sentenza n. 119/2015, con la quale ha dichiarato l’incostituzionalità dell’esclusione dei giovani stranieri regolarmente soggiornanti dalle selezioni per il servizio civile. Secondo la Consulta il fatto che il servizio civile sia finalizzato alla difesa della patria non comporta la riserva in favore dei soli cittadini, perché la difesa deve essere intesa nel senso più ampio di cooperazione alla crescita della società.  «L’esclusione degli stranieri, impedendo loro di concorrere a realizzare progetti di utilità sociale e di conseguenza di sviluppare il valore del servizio a favore del bene comune, comporta un’ingiustificata limitazione al pieno sviluppo della persona e all’integrazione nella comunità di accoglienza».

Dunque, diversamente da quanto sostengono le visioni identitarie fisse e immutabili proposte dai nazionalismi e dai populismi risorgenti, la percezione che una comunità ha di sé può cambiare nel corso del tempo: il “popolo”, la “comunità” non sono concetti definiti una volta e per tutti e autosufficiente, ma sono oggetto di una costruzione e ricostruzione di senso, cui non solo “noi”, i cittadini, ma anche “loro”, gli stranieri, partecipano. È in quanto persone dotate di pari dignità che i migranti rivendicano la loro appartenenza a una medesima comunità di diritti e di doveri.

Per questo è importante che ci si impegni a sostenere il progetti di una riforma complessiva della legislazione sulla cittadinanza,  ma anche a promuovere un’idea dinamica di cittadinanza, capace di riformulare il senso di “comunità”.


[1] ISTAT, Rapporto Povertà 2021, p. 5, 15 giugno 2022,  https://www.istat.it/it/files//2022/06/Rapporto_Povert%C3%A0_2021_14-06.pdf.

[2] G. López, Rebellious Lawyering. One Chicano’s Vision of Progressive Law Practice, Westview Press, Boulder-San Francisco-Oxford,  1992.

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