Influencer e diritto del lavoro: una relazione ancora a distanza

Anna Rota

Ricercatrice di Diritto del lavoro, Università di Bologna

16 febbraio 2024

  1. Uno sguardo sull’attualità: partendo dal caso Ferragni

Sono mesi che l’opinione pubblica è sollecitata ad esprimersi sul caso Ferragni, ovvero la vicenda processuale che ha come protagonista la nota influencer. Come riportato dalla cronaca più recente, la trama è destinata ad arricchirsi: nuove questioni di diritto affiorano coinvolgendo temi di carattere più generale relativi alla triplice dimensione finanziaria, sociale e di rapporto con gli stakeholders di questo microcosmo del web.  

2. Il quadro giuridico di riferimento

La riflessione giuridica s’inserisce in un contesto che, a livello regolativo, risulta incentrato su specifiche questioni di diritto civile e tributario. Minore interesse pare accompagnare le previsioni legislative introdotte dalla l. n. 118/2022, recante la Legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021 nonché gli esiti della prima “Indagine conoscitiva sui lavoratori che svolgono attività di creazione di contenuti digitali”[1]

Al tema fiscale deve riferirsi l’indicazione offerta dall’Agenzia delle Entrate in relazione alla tassazione dei proventi di influencer esteri la cui attività sia stata realizzata in Italia. In risposta all’interpello n. 700/E/2021 è stato chiarito che i compensi percepiti per l’esecuzione delle sessioni di photo shooting “costituiscono redditi di lavoro autonomo in quanto, anche se non strettamente riconducibili alla loro attività principale, sono da considerare redditi relativi ad attività collegate al contesto artistico nel quale si esprime la loro attività principale (es. cantante, artista o influencer)”. 

Nell’ambito del capo VII della l. n. 118/2022, dedicato alla “Concorrenza, rimozione degli oneri per le imprese e parità di trattamento tra gli operatori” sono da richiamare alcuni riferimenti al più generale settore dei creatori di contenuto digitale. L’art. 27 del predetto provvedimento prevede il conferimento di una specifica delega al Governo affinchè, entro agosto 2024, provveda ad individuare specifiche categorie per i creatori di contenuti digitali, tenendo conto dell’attività economica svolta. Oltre quanto già emerso in sede di primo commento, in specie circa l’opportunità di prevedere o meno un nuovo Codice Ateco[2] l’esigenza pare essere quella di maggiore dettaglio rispetto alla più grossolana nozione sociale che suole ricomprendervi la moltitudine di soggetti che, attraverso la condivisione di contenuti audiovisivi sui social media, esercitano un impatto su opinioni, consumi e comportamenti. 

La stessa fonte regolativa affida all’Esecutivo il compito di prevedere meccanismi di risoluzione alternativa delle controversie tra creatori di contenuti digitali e relative piattaforme. Sono fin troppo note le vicende denunciate durante la mobilitazione #Nostreamday, organizzata a dicembre 2020 per rivendicare rapporti e condizioni contrattuali più trasparenti anzitutto con riguardo alla pratica di disattivazione dell’account unilateralmente disposta dal gestore della piattaforma[3]

Per inciso, l’adozione del provvedimento delegato è collegata alla “proposta del Ministro per la pubblica amministrazione, del Ministro dello sviluppo economico, del Ministro per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale, del Ministro dell’economia e delle finanze e dei Ministri competenti per materia, sentiti le associazioni imprenditoriali, gli enti rappresentativi del sistema camerale e le organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, previa acquisizione dell’intesa in sede di Conferenza unificata di cui all’art. 8, d.lgs. n. 281/1997 e del parere del Consiglio di Stato, che sono resi nel termine di quarantacinque giorni dalla data di trasmissione di ciascuno schema di decreto legislativo, decorso il quale il Governo può comunque procedere”. Non pare dubitarsi sul necessario coinvolgimento del Ministero del lavoro, pur se non espressamente menzionato, anche per non privare di significato la consultazione –invece prevista nel testo legislativo – delle parti sociali. 

Come noto, sulla professione influencer si sofferma anche la relazione conclusiva della Commissione, proponendone anzitutto una definizione. In via di prima approssimazione, si considerano influencer “i creatori di contenuti resi disponibili sulle piattaforme di comunicazione digitale che, in ragione della loro popolarità e del credito maturato nell’ambito della comunità degli utenti delle piattaforme, promuovono particolari beni o servizi ricevendo come corrispettivo denaro o altre utilità”. Più nel dettaglio entrano le proposte di categorizzazione interna, sulla base del numero di “utenti che seguono i canali di diffusione dei contenuti, che vanno dai cosiddetti nano-influencer, con migliaia o decine di migliaia di seguaci, ai mega-influencer, che possono contare su milioni di seguaci, o, con una scala meno articolata, dai micro-influencer ai macro-influencer, con differenze particolarmente significative riguardo al potere contrattuale esercitabile nei confronti delle piattaforme che rendono disponibili i contenuti”. Vero resta che, come segnalato dall’Associazione italiana influencer, la categoria in esame si presenta molto fluida in quanto “qualunque attività (manageriale, artistica o di divulgazione scientifica o culturale) può convivere con quella di influencer, ma non necessariamente chi produce contenuti pubblicati sui social media può per ciò solo essere qualificato come un influencer”[4].

Al quadro regolativo deve aggiungersi il tassello recentemente aggiunto dal Garante per le comunicazioni, cui va il merito di aver gettato nuova luce su una categoria ancora troppo ai margini del ragionamento giuridico. All’Authority si deve la elaborazione di linee guida che obbligano i professionisti del web al rispetto del Testo unico sui servizi di media audiovisivi, in particolare sulle norme relative alla trasparenza e correttezza dell’informazione, alla tutela dei minori ed ai diritti della persona, nonchè alla trasparenza in materia di comunicazioni commerciali e product placement. Si tratta di regole che, pur incidendo su una fetta specifica di influencer (creator con almeno un milione di follower e un valore di engagement rate medio pari o superiore al 2%), presentano diversi elementi d’interesse: si allinea al più avanzato sistema regolativo in materia mutuando alcune delle previsioni della legge francese approvata a giugno 2023[5] con lo scopo di sensibilizzare gli utenti su quelle che la rubrica del provvedimento definisce «le derive degli influencers sui social network»; al contempo, si fa apprezzare per gli inediti riferimenti al profilo della corretta rappresentazione dell’immagine della donna. 

Più precisamente Agcom stabilisce il divieto di vittimizzazione e di lesione della dignità umana, richiamandosi a principi elaborati nelle fonti di diritto internazionale e dell’Unione europea con riguardo al settore dell’influencer marketing. Non trascura peraltro l’esigenza di preservare i minori dalla diffusione di contenuti in grado di danneggiarne lo sviluppo fisico, psichico e morale, conformemente alle più recenti indicazioni del Reg. UE 2022/2065 (cfr. in part. Cons. 95, Reg. UE 2022/2065).

3. Quale ruolo per il diritto del lavoro? Brevi note su un “personaggio in cerca d’autore”

Al di là delle questioni appena richiamate, a cui vanno aggiunte le previsioni del DDL approvato a fine mese scorso dal Consiglio dei Ministri per la trasparenza delle attività di influenza e delle informazioni obbligatorie nelle vendite con finalità benefica, il tormentato caso Ferragni quanto le stesse indicazioni fornite dal Garante non risultano comunque in grado in grado di accendere una discussione sui profili di rilievo lavoristico. A tratti sembra addirittura negarsi qualsiasi interesse per il diritto dei rapporti di lavoro. 

Le poche riflessioni emerse sono state espresse nel corso delle audizioni avviate dalla indagine conoscitiva sulle condizioni dei content creator, oramai di 2 anni fa e riferita ad un contesto oggi arricchito di nuovi elementi di problematicità. In quella occasione è risultata prevalente la proposta di ricondurre tali attività nell’alveo del lavoro autonomo, talvolta si sono ravvisate le caratteristiche tipiche della piccola imprenditoria o della para-subordinazione, se non addirittura di utenti non professionali delle piattaforme online[6] a cui applicare le regole del Codice del consumo. All’inquadramento ex art. 409 c.p.c. è stata associata l’instaurazione di rapporti continuativi tra azienda e influencer che comportano la fissazione di specifiche modalità di coordinamento. Neppure si trascuri la presenza di influencer formalmente assunti dalle aziende e spesso inseriti nella loro organizzazione affinché contribuiscano a incrementare il loro brand awareness.

A ben vedere, l’assenza di protagonismo di tale ambito del diritto non è inedita o quanto meno rimane di secondo piano rispetto alla più vivace discussione. 

Diverse sono le analogie con la vicenda dei riders, i cui tratti identificativi e di tutela hanno raggiunto l’attenzione legislativa soltanto nella l. n. 128/2019 e dopo esperienze territoriali, poche invero, che hanno rafforzato l’importanza di un intervento specifico sul più conosciuto segmento del lavoro su piattaforme digitali. Ieri come oggi, è la comparazione con la Francia a suggerire un’analisi ragionata attorno a soggetti che tramite la rete Internet ottengono una significativa diffusione per via del crescente consenso dei followers, oltre che forme remunerative a cui già l’ordinamento (anche nostrano) ha guardato con attenzione.

Emerge altrettanto chiaramente il bisogno di costruire profili identitari e di protezione in base agli specifici bisogni di tutela e senza trascurare le profonde differenze all’interno della categoria di influencer, non solo per via del fatturato o dei followers ma anche per quanto attiene all’età anagrafica di chi esercita nel web un potere di condizionamento sul pubblico. 

Tra le proposte avanzate in dottrina v’è anzitutto quella di non trascurare la peculiarità delle relazioni che interessano l’influencer: da un lato, il rapporto contrattuale con l’azienda; dall’altro, la relazione, tutt’altro che secondaria, con la piattaforma che governa lo spazio virtuale assegnato all’influencer, creando contatti con il brand o con le aziende[7]; infine il rapporto tra piattaforma e azienda. Proprio quest’ultima attività solleva interrogativi in termini di rilevanza attuale o potenziale delle normative in materia di organizzazione e disciplina del mercato del lavoro[8].  

4. L’urgenza di disciplinare il fenomeno (in ascesa) dei kid influencers

I maggiori profili problematici emergono dal settore dei kid influencers, data la crescente affermazione a livello globale. L’attrattività esercitata dai social costituisce un elemento determinante per l’accesso a questo mercato. La comparazione con il sistema francese può rivelarsi un esercizio utile, potendo quest’ultimo offrire un riferimento per costruire in Italia un apparato protettivo aggiornato rispetto a quello della l. n. 977/1967. 

Neppure pare corretto forzare – oltre il consentito – il perimetro della tutela della salute e sicurezza. Tanto le norme sulla valutazione dei rischi del d.lgs. n. 81/2008 quanto le disposizioni introdotte in occasione del recepimento della dir. N. 94/33/CE si presentano vincolanti in uno specifico ambito di rapporti di lavoro, quelli di natura subordinata oppure inquadrati nel lavoro etero-organizzato o nella collaborazione coordinata e continuativa, seppur limitatamente allo svolgimento del contratto nel luogo del committente. Altrettanto forzato risulta l’estensione della l. n. 128/2019 al di fuori del campo di applicazione indicato nell’incipit del capo V bis, d.lgs. n. 81/2015. 

Alla luce del quadro regolativo emerge un grave vuoto di regole per una fetta consistente di influencer, in particolar modo generato dall’assenza di protezione rispetto a rischi derivanti da una carente organizzazione dell’orario di lavoro, dalla poca o nulla consapevolezza intorno ai rischi esistenti o potenziali. Questioni a cui almeno in parte l’intervento legislativo francese ha offerto risposta, incidendo sulla formazione, informazione e sulla previsione di un pacchetto di tutele minime la cui attuazione è in parte devoluta al gestore della piattaforma digitale. 

5. Una breve conclusione ed un auspicio

In conclusione, non v’è dubbio che un percorso di indagine debba trovare avvio, servendosi – come anni addietro – di alcune domande rivolte all’allora emergente lavoro sul web[9]. Quesiti invero, a cui solo in parte la descrizione empirica ha potuto fornire risposte e per lungo tempo rimasti all’ombra della discussione tra giuristi del lavoro: c’è lavoro per chi esercita nel e attraverso il web un potere di influenza? Si tratta di meri utenti della rete oppure è possibile parlare di lavoratori? Oppure, ancora, si tratta sempre di forme di auto-imprenditorialità? Quali regole in termini di corrispettività oltre il riconoscimento sociale? Quali tutele oltre alla disciplina introdotta dal Garante delle comunicazioni? È corretto ragionare su approcci differenziali della tutela in base al concreto grado di dipendenza economica ed avendo riguardo al modello di business che gestisce la collaborazione dell’influencer?[10]

Senza arrestare l’espansione di un nuovo mercato, è forse giunto il tempo di avvicinare il diritto del lavoro alle prestazioni rese dall’influencer, sostenendone ed al contempo difendendone la specifica funzione in un contesto, quello digitale, che ha preferibilmente – e nell’assenza di ostacoli – sviluppato in modo autonomo le proprie potenzialità. 

Si tratta d’una sfida ambiziosa da muovere anche al di fuori dei tradizionali schemi di regolazione, ma tenendo conto delle tante sollecitazioni già emerse al cospetto delle prime forme di lavoro online e dell’ambizioso principio enunciato nell’art. 35 Cost., non sempre letto in tutta la sua potenzialità applicativa. 


[1]Documento conclusivo elaborato ed approvato dalla Commissione XI lavoro pubblico e privato nella seduta del 9 marzo 2022. Il documento è disponibile al sito https://documenti.camera.it/leg18/resoconti/commissioni/stenografici/pdf/11/indag/c11_contenuti_digitali/2022/03/09/leg.18.stencomm.data20220309.U1.com11.indag.c11_contenuti_digitali.0014.pdf.

[2] Per V. Barzotti – I. Jerussi, Creatori di contenuti digitali, primi passi a sostegno di un nuovo modo di lavorare, LDE, 2022, fasc. 3, 6: “Tale disposizione presuppone, da un lato, che le piattaforme digitali possono intermediare sostanzialmente ogni prestazione di servizio, tecnica o professionale. Dall’altro che esistono microimprenditori digitali che necessitano di essere inquadrati correttamente nell’ambito dei loro rapporti amministrativo-contabili con lo Stato”.

[3] Sia consentito rinviare ad A. Rota, I creatori di contenuti digitali sono lavoratori? LLI, 2021, vol. 7, no. 2, spec. I.14-I.17. In superamento delle opacità connesse al funzionamento degli algoritmi, pare apprezzabile il tentativo della proposta di piattaforma sul lavoro tramite piattaforma nonchè la recente legislazione interna in tema di obblighi informativi di cui al d.lgs. n. 104/2022.  

[4] Così il Documento conclusivo votato il 9 marzo 2022, spec. 8-9. La relazione è disponibile in  https://documenti.camera.it/leg18/resoconti/commissioni/stenografici/pdf/11/indag/c11_contenuti_digitali/2022/03/09/leg.18.stencomm.data20220309.U1.com11.indag.c11_contenuti_digitali.0014.pdf., 

[5] Per un primo commento alla legge francese, sia consentito rinviare a A. Rota – M. Vitaletti, La legge francese sugli influencer. Quale spazio per il diritto del lavoro?, in Labour & Law Issues, 2023, 2, C.35-C.57, disponibile al sito https://doi.org/10.6092/issn.2421-2695/18626

[6] Per un resoconto delle posizioni espresse v. ancora il citato Documento conclusivo, spec. 18. 

[7] L. Torsello, Il lavoro degli influencers: percorsi di tutela, Labour law Issues, 2021, 2, I. 55 ss.

[8] il tema è accennato da L. Torsello, op. Cit., I.58 che lo qualifica come “operatore economico che svolge attività di mediazione di manodopera”. 

[9] P. Tullini, C’è lavoro sul web?, Labour Law Issues, 2015, vol. 1, fasc. 1, 1 ss. 

[10] Secondo L. Torsello, op. cit., I. 66“a strada più proficua è rappresentata da un’estensione universalistica delle tutele, prospettiva avallata da una lettura costituzionalmente orientata”. 

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