Micaela Vitaletti
Professoressa associata di Diritto del Lavoro e Relazioni Industriali, Università degli Studi di Teramo
26 agosto 2024
Pubblicato dalla casa editrice Einaudi nell’aprile del 2024 «Il femminismo non è un brand» è l’ultimo libro di Jennifer Guerra, giornalista e attenta studiosa delle tematiche di genere. Attraverso ampi riferimenti alla letteratura americana, con la quale documenta la sua ricerca, l’autrice ripercorre la storia del femminismo ponendo una questione: a cosa ci riferiamo quando parliamo di femminismo?
Storia “brevissima”, scrive l’autrice, i cui snodi più significativi vengono individuati a dispetto delle letture comuni: non il movimento “Me too” – spogliato dal glamour hollywoodiano – quanto il mancato supporto del movimento femminista alla candidatura di Hillary Clinton per squarciare il velo delle illusioni sulla presunta solidarietà femminile, sulla (inevitabile?) corrispondenza tra femminismo e genere femminile. Il femminismo contemporaneo – ci ricorda l’Autrice – è qualcosa di ben diverso da un movimento per la parità dei sessi.
Etichettato a lungo come una questione per donne, il femminismo diventa invece un ‘brand’, un prodotto di consumo per il mercato, una strategia di comunicazione funzionale alle aziende, alla dimensione istituzionale, pubblica e di spettacolo, amplificata dai social e dai mass media. È parte della narrazione maschile, almeno quando intreccia le dinamiche pubbliche, che ne assorbe il potenziale per conquistare nuovi ambiti, ulteriori terreni di potere. Il femminismo diventa così, con una formidabile torsione, strumento di successo sociale ed economico.
Il grande pregio di questo libro e dell’autrice è dunque quello di aver fatto emergere la differenza che esiste tra il flusso di informazioni sulla ‘questione femminile’ e l’effettivo radicamento del femminismo come qualità sociale e culturale necessaria per l’emancipazione femminile. Si potrebbe dire: dall’editoria alle influencer, dalle aziende ai soggetti istituzionali, ognuno si appropria del tema come può. Il libro passa poi a discutere altri temi centrali: il corpo e il divieto di invecchiare, la costante aspirazione verso una bellezza artificiale, anche essa espressione del femminismo contemporaneo; la maternità trasformata da relazione filiale a prodotto di consumo, da relazione filiale a lavoro, come qualsiasi attività produttiva, dove l’organizzazione familiare, mascherata dalla parola ‘conciliazione’, assume tratti aziendalistici. Il femminismo è quasi cannibalizzato dal capitalismo, che oscura i dati reali della condizione femminile, sicuramente diversi dal passato, ma che in ogni caso stridono con il pensiero dominante.
Il libro offre una “dialettica del femminismo”: una lettura critica che non coltiva toni accesi o accusatori, ma impiega un linguaggio nuovo, per denunciare le insidie di un femminismo addomesticato dall’economia, appetibile per il mercato con alcune concessioni, perché come scrive l’autrice, il femminismo è (anche) «una festa, il contrario della solitudine». Torniamo alla domanda di fondo: a cosa ci riferiamo quando parliamo di femminismo? Una strategia del capitalismo? Forse non è difficile azzardare una risposta, guardando ognuna al proprio vissuto (reale) che resta ben diverso dai tanti proclami e da slogan che sono espressione di un femminismo di ‘forma’ o, meglio, di ‘maniera’, adatto ai salotti e adattissimo al lessico dei social network.
Buona lettura!