Salvatore D’Acunto
Professore associato di Economia politica, Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli
19 maggio 2023
A dispetto della distanza che va facendosi sempre più ampia tra il suo cinema e la concezione estetica dominante tra il pubblico, Ken Loach continua ad occupare uno spazio rilevante nel panorama del cinema contemporaneo: attrae l’attenzione degli organizzatori dei festival, trova più o meno regolarmente riscontri positivi nella critica, difende senza grandissimi problemi la sua nicchia di mercato e riesce regolarmente a trovare i finanziamenti per fare un film ogni due/tre anni.
L’interesse suscitato dai film di Loach non è facile da spiegare. Il suo è infatti un cinema assai eccentrico sul piano tematico, sul piano politico e sul piano estetico. Sul piano tematico, perchè racconta il “conflitto di classe”; sul piano politico, perchè vi prende chiaramente posizione, e quindi suggerisce implicitamente i connotati di una “società possibile” contrapposta al modello di società concretamente esistente; sul piano estetico, perchè ispira programmaticamente la sua messinscena a un rigoroso principio di sobrietà figurativa, scegliendo quindi di non usare la tecnica per “edulcorare” la rappresentazione della fatica di vivere dei protagonisti. Esattamente il contrario di quanto prescrivono le parole d’ordine dell’industria cinematografica: non trattare temi divisivi, se proprio bisogna farlo non prendere apertamente posizione, e in ogni caso non disturbare lo sguardo dello spettatore mostrandogli senza filtri le imperfezioni del mondo reale. I film di Loach lanciano dunque una sfida esplicita al senso comune in materia di arte e di spettacolo, e ci costringono a farci domande un pò scomode: a cosa serve un film? Cosa ci cerchiamo dentro? Quando raccontiamo ai nostri amici che il film dell’altra sera era “molto bello” o “faceva schifo”, in base a quali criteri formuliamo questi giudizi?
Proverò a prenderla un pò alla larga, partendo da una breve riflessione sulla specificità del mezzo cinematografico. Il cinema è un’arte narrativa, come il romanzo e il teatro. Ciò che caratterizza le arti narrative è il fatto che la rappresentazione si svolge lungo lo scorrere del tempo. Ciò che accomuna romanzo, cinema e teatro è che, piuttosto che fissare un istante (come fanno le cosiddette arti figurative: pittura, scultura, fotografia), raccontano una dinamica evolutiva, il passaggio tra un prima e un dopo. I protagonisti dei romanzi, delle pieces teatrali e dei film all’inizio della vicenda si trovano in una data condizione e hanno desiderio di modificarla. La drammatizzazione nasce sempre dal contrasto tra lo stato di cose esistente e i desideri dei protagonisti. A volte capita che i protagonisti riescano nei loro intenti, a volte che falliscano, a volte che scoprano durante il percorso che il mutamento che cercavano è meno interessante di quanto pensassero, ecc. Ma, indipendentemente dall’esito del loro “percorso”, la narrazione ha senso solo come tensione al movimento tra lo stato delle cose esistente e quello desiderato. In sostanza, un prodotto narrativo consiste nella messa in scena della lotta del protagonista (l’eroe) contro gli ostacoli che si oppongono alle sue aspirazioni.
Pertanto, il cinema condivide con le altre arti narrative il fatto di essere intrinsecamente associato al mutamento. Un regista non può fare altro che provare a mettere la macchina da presa nel punto preciso in cui il mutamento sta prendendo forma. Non importa il tempo, il luogo, la natura del mutamento. L’azione può svolgersi ai nostri giorni, nel medioevo o nell’antichità, e l’azione dei protagonisti essere animata dalle aspirazioni più svariate: la sopravvivenza, un’esistenza dignitosa, la ricerca della realizzazione affettiva, la ricomposizione di un equilibrio esistenziale perduto, il successo professionale, il prestigio, la ricchezza. E svariati possono essere anche gli ostacoli che il protagonista incontra nel suo sforzo per realizzare le sue aspirazioni.
Sarebbe interessante classificare i film in base alla natura delle aspirazioni dei relativi protagonisti, e sono convinto che analizzando il mutare nel tempo del peso relativo di ogni “categoria” scopriremmo un sacco di cose interessanti su chi siamo e come siamo cambiati negli ultimi cinquanta anni. Tuttavia, ai fini dell’analisi del cinema di Loach, è sicuramente più interessante interrogarci sulla natura degli ostacoli che si frappongono alla realizzazione delle aspirazioni del protagonista. Ebbene, c’è da scommettere che una indagine analitica sul punto rivelerebbe la netta dominanza, nel cinema dell’ultimo ventennio, di due precise “tipologie”: o l’eroe combatte contro la propria fragilità emotiva, oppure contro un antagonista, un antieroe come si usa dire nella critica cinematografica. Di qui non si scappa.
La elevata frequenza della prima fattispecie nel cinema contemporaneo è una tendenza facilmente comprensibile alla luce dei mutamenti che stanno interessando le nostre società: il mondo si fa sempre più complesso, la vita diventa sempre più difficile, la gente fa sempre più fatica a gestirla. Questi fenomeni sullo sfondo vengono poi filtrati dallo sguardo di intellettuali e artisti a volte troppo conformisti per mettere in discussione il modello di società che produce quello stress, che quindi trovano più “comodo”spostarne le responsabilità sull’individuo. Il messaggio che ne scaturisce è spesso molto conservatore: non è la società che non è a misura d’uomo, ma l’uomo che non riesce a essere all’altezza delle responsabilità che la società gli affida a causa di debolezze caratteriali. Generalmente a questi prodotti è annesso anche un messaggio consolatorio: la fatica di gestire la vita si può vincere, ci sono gli amici, gli psicologi, la solidarietà diffusa, la ricerca delle motivazioni profonde dell’esistenza, gli affetti, l’amore. Basta aggrapparsi ad una di queste àncore, raccogliere le proprie energie, “lavorare su sé stessi” e ce la si può fare. Chi non ce la fa ci può far pena, ma in fondo è solo colpa sua.
Passiamo ora alla seconda “categoria” di prodotti cinematografici: quelli in cui le aspirazioni dell’eroe sono contrastate da un antieroe. Anche qui, sarebbe interessante indagare analiticamente sulla rappresentazione della natura del conflitto eroe/antieroe offerta dal cinema contemporaneo. Perché mai gli antieroi non si “scansano” e non lasciano l’eroe libero di perseguire le proprie aspirazioni? Perchè si mettono di traverso? Ci sono delle regolarità ricorrenti circa le cause del conflitto attorno a cui si sviluppa la drammatizzazione? Direi che, in genere, la conflittualità da parte dell’antieroe è raccontata come conseguenza di una delle seguenti connotazioni caratteriali: grettezza, meschinità, pregiudizio, ignoranza, invidia, incapacità di relazionarsi simmetricamente con il prossimo, anaffettività, narcisismo patologico. Cioè, in sintesi, nella gran parte del cinema contemporaneo l’antieroe è caratterizzato in senso moralistico o psicologico come un “deviante”. E’ invece assai raro trovare nel cinema contemporaneo il racconto di uno scontro tra individui intenti al perseguimento di interessi che per qualche motivo sono oggettivamente in conflitto. Il conflitto può essere solo il risultato di qualche forma di devianza rispetto ad uno “standard” etico e/o caratteriale: un “buono” contro un “cattivo”, un “cooperativo” contro un “anti-sociale”, un “normale” contro un “disturbato”.
Questo modo di interpretare il conflitto nel cinema contemporaneo è in gran parte il riflesso di una visione del mondo radicata in profondità nella cultura collettiva. In realtà, non sono solo i registi e gli sceneggiatori cinematografici a leggere in questo modo il conflitto nelle nostre società. Al contrario, questa di connotare moralisticamente o “psichiatricamente” i nostri antagonisti è anche una nostra ricorrente consuetudine. A chi non capita di essere destinatario delle confidenze di amici aventi ad oggetto i conflitti intersoggettivi in cui sono coinvolti? Facile prevedere che quei racconti siano popolati in ampia maggioranza da antagonisti descritti come affetti da invidia, grettezza, meschinità, infantilismo, superbia, narcisismo patologico, ecc. Anche le nostre consuetudini narrative sembrano quindi escludere che il conflitto nella nostra vita possa promanare dalla oggettiva difficoltà di contemperare i nostri interessi con quelli (magari altrettanto legittimi) dei nostri simili. Noi tendiamo cioè a narrare il mondo come attraversato da una naturale armonia che solo vizi morali o forme più o meno gravi di disturbo della personalità possono alterare.
Ebbene, questi sono i film che Loach non farebbe mai. La sua idea di cinema è precisamente agli antipodi rispetto a questo modello di drammatizzazione. Gli ostacoli che gli eroi di Loach incontrano nel realizzare le loro aspirazioni non stanno né nella propria fragilità emotiva, né nel carattere deviante – in senso morale o psicologico – degli individui con cui interagiscono. Non sono infelici perchè hanno a che fare con antagonisti “devianti”. Al contrario. I loro antagonisti sono tutti perfettamente “integrati” nel loro mondo, ne condividono gli stessi valori. Non sono né cattivi, nè antisociali, né disturbati.
Possiamo riferirci al suo ultimo film, Sorry, we missed you, per illustrare la natura completamente diversa del conflitto messo in scena da Loach. Il protagonista Ricky Turner, stanco di lavorare alle dipendenze altrui e attratto dal mito dell’autonomia, compra un furgone a credito e avvia un’attività di corriere freelance per conto di una delle tante aziende che operano nel delivery. Si trova così catapultato in un mercato affollato da decine di operatori e caratterizzato da una competizione capillare e spietata, e la sua esistenza comincia ad essere scandita da un dispositivo digitale che ne controlla i tempi di consegna, i percorsi, le pause. Gli “antagonisti” con cui si contende le tratte migliori e le consegne più ricche sono tutte persone come lui: cercano di realizzare i suoi stessi obiettivi (il pagamento dei debiti, l’acquisto di una casa), vivono anch’essi affogati nella fatica di giornate senza fine, rispondono allo stesso sistema di premi e punizioni. Il funzionamento del meccanismo della competizione è assicurato da un beep che segnala a tutti quando la loro performance scade al di sotto della media. Così, ognuno dei concorrenti sente il fiato dell’altro sul collo. La vita di ognuno (e quelle dei relativi familiari) finisce per essere scandita dai tempi di tutti gli altri, e deviata pertanto verso un fatale disordine esistenziale.
La narrazione di Loach sgombra quindi il campo dalle semplicistiche dicotomie buono/cattivo, normale/disturbato che in genere strutturano la nostra “lettura” del mondo, e ci costringe a cercare altrove la spiegazione della sofferenza degli uomini. Finiamo così per scoprire che se la vita di Ricky ha il sapore di una soffocante “apnea” è perchè le regole del sistema produttivo dentro cui opera sono congegnate in modo da spingere gli uomini a competere con i propri simili con una intensità che non lascia spazio alla vita, agli affetti, alle relazioni familiari, alla cura dell’equilibrio esistenziale e della salute, persino alla possibilità di fare pipì in un normale cesso. Quel beep che governa il suo tempo è infatti un “rilevatore” dell’energia che i suoi simili stanno mettendo nella competizione con lui. Si badi inoltre che si tratta di un rilevatore “imparziale”: la sua natura “algoritmica” garantisce che i suoi antagonisti non possono truccare la partita. Se Ricky sta perdendo la partita non è perchè qualche “cattivo” ne sta arbitrariamente orientando il corso, ma solo perchè chi sta giocando al suo stesso gioco sta giocando meglio di lui. Dove, attenzione, quel “meglio” significa che sta sottraendo agli affetti, alla cura delle persone care, insomma, alla vita, più tempo di lui.
E qui Loach ci porta a sbattere contro il paradosso. Questo mondo è organizzato in base ad una regola “meritocratica” (vince il gioco chi è più produttivo, chi soddisfa meglio e più rapidamente i desideri dei consumatori), eppure si rovescia in una distopia, dove l’incuria nei confronti di sé stessi e delle persone care diventa titolo di merito. Ma se la partita non è truccata, e però l’esito del gioco ci sembra disumano, diventa inevitabile farsi qualche domanda sul senso delle regole del gioco. Si tratta di regole “naturali” o arbitrarie? E se sono arbitrarie, chi le ha stabilite? Sono coerenti con le nostre idee di giustizia o hanno implicazioni socialmente ed eticamente discutibili? Sono distributivamente “neutrali” o fanno il gioco di qualche gruppo sociale a danno di altri?
E così, la tela narrativa tessuta da Loach finisce per condurre il nostro sguardo sul conflitto che pervade l’organizzazione della produzione: la lotta incessante per la ripartizione del valore economico tra chi non può fare a meno di lavorare per vivere e chi regge i fili del gioco dagli attici degli edifici più prestigiosi delle capitali della finanza, spostando capitali da un’impresa ad un’altra con la stessa facilità con cui noi spostiamo le chiavi dell’auto dalla tasca destra a quella sinistra della giacca. Quel conflitto che struttura le regole relative all’uso del lavoro nei processi produttivi e alle modalità della sua remunerazione, alla mobilità del capitale, alla tutela di chi il lavoro lo perde, di chi si infortuna e di chi si ammala. Quel conflitto ostinatamente negato nel discorso pubblico con la retorica della “estinzione delle classi sociali”, eppure così palpabile nella nostra quotidianeità. Metterlo a nudo, spogliarlo dei travestimenti sotto cui l’ideologia dell’establishment prova a nasconderlo è, secondo Loach, il vero compito del cinema. Per usare le sue parole, «…un film è un microcosmo che illustra lo stato generale del mondo, mette in luce il funzionamento della società e ne mostra le derive».
Non si tratta di un compito semplice in tempi come questi. Oggi parlare di conflitto sociale non è chic. Gli ultimi quaranta anni della nostra storia sono stati percorsi da una retorica ossessiva sulla necessità di una “pacificazione” delle nostre società. L’idea del conflitto come “motore” dell’evoluzione sociale ed economica è stata lentamente sradicata dalla nostra cultura. Si è invece lentamente consolidata l’idea che il conflitto sociale sia inutile per chi lo agita e dannoso per la società nel suo complesso. Conviene quindi che tutti si accontentino e aspettino fiduciosi che la ricchezza prodotta da un sistema produttivo “pacificato” sgoccioli ai piani inferiori della società, come ci assicurano gli economisti ortodossi.
Una retorica mistificante. Quando si nega legittimità al conflitto tra capitale e lavoro, in realtà non si fa altro che dislocarlo all’interno della classe lavoratrice, disegnando implicitamente nell’immaginario collettivo una mappa di affiliazioni e ostilità funzionale agli interessi della classe egemone. Ma forse meglio esprimere questo concetto con le parole – molto più chiare – di Loach. «Chi sta al potere», dice il regista inglese in una intervista, «non vuole che il popolo combatta contro il suo vero nemico, contro quelli che hanno il controllo delle grandi imprese, che dominano la finanza e la politica. Chi sta al potere vuole dividere i lavoratori per poterli sfruttare». Se l’arte vuole avere una funzione sociale e politica, deve svelare questa mistificazione, deve sfidare il racconto dei potenti, come recita paradigmaticamente il titolo di un volumetto in cui Loach ha provato a condensare la sua visione del cinema. Se abdica a questo ruolo, limitando la rappresentazione del conflitto nelle nostre società alle dimensioni della devianza morale o psichica, l’arte si rende invece colpevolmente complice della conservazione di un ordine che soffoca l’energia vitale della gran parte dell’umanità.