William Chiaromonte
Ricercatore di Diritto del Lavoro, Università di Firenze
12 maggio 2021
Sono trascorsi nove mesi dal termine, fissato al 15 agosto 2020 dal “decreto rilancio” del Governo Conte II, per la presentazione delle domande di regolarizzazione ed emersione nell’ambito della (ennesima) procedura di sanatoria, disposta dall’art. 103 del d.l. 34/2020, convertito con modificazioni in l. 77/2020, e riguardante i (soli) tre settori dell’agricoltura, del lavoro domestico e dell’assistenza alla persona.
La sanatoria, come è noto, era stata avviata nel maggio dello scorso anno allo scopo – come si desume dalla lettera dell’art. 103 – di «garantire livelli adeguati di tutela della salute individuale e collettiva in conseguenza della contingente ed eccezionale emergenza sanitaria connessa alla calamità derivante dalla diffusione del contagio da Covid-19», da un lato, e di «favorire l’emersione di rapporti di lavoro irregolari», dall’altro. La procedura è stata, quindi, gravata di due obiettivi: uno sanitario-emergenziale, per garantire il diritto alla salute anche a tutti gli irregolari e, di conseguenza, contenere la pandemia; e uno economico-occupazionale, per soddisfare il fabbisogno di lavoratori in alcuni settori ritenuti strategici.
La procedura ha previsto due distinti canali di regolarizzazione:
- il primo ha consentito ai datori di lavoro di presentare un’istanza per la stipulazione un contratto di lavoro subordinato con uno straniero già presente in Italia prima dell’8 marzo 2020 o di far emergere un rapporto lavorativo irregolare in essere al 19 maggio 2020 con uno straniero già presente in Italia prima dell’8 marzo 2020 (ma anche con un cittadino italiano o UE);
- il secondo ha consentito agli stranieri con permesso di soggiorno scaduto dopo il 31 ottobre 2019, e che avessero già lavorato in uno dei tre settori individuati, di domandare il rilascio di un permesso di soggiorno per richiesta di lavoro di durata semestrale, convertibile in permesso di soggiorno per lavoro qualora, nel termine di durata del permesso temporaneo, fossero riusciti a trovare un’occupazione (sempre in uno dei tre settori richiamati).
Secondo i dati forniti dal Ministero dell’Interno, nel periodo intercorso fra il 1° giugno 2020, data di avvio della procedura, e il 15 agosto dello stesso anno sono state presentate 207.542 domande attraverso il primo canale, prevalentemente nel settore del lavoro domestico e di assistenza alla persona (circa l’85% del totale delle domande trasmesse, pari a 176.848), e in numero decisamente inferiore in relazione all’emersione di altre forme di lavoro subordinato (il 15% del totale, pari a 30.694), di cui solo circa 29.500 in agricoltura (le rimanenti concernono la pesca e gli altri settori affini coinvolti). A queste vanno aggiunte le richieste di permesso di soggiorno temporaneo presentate in relazione al secondo canale di regolarizzazione (12.986). Ciò che a prima vista colpisce non è tanto il dato complessivo delle domande – superiore del 54% a quello della sanatoria del 2012 – quanto piuttosto la netta prevalenza di istanze presentate da datori di lavoro nell’ambito del lavoro domestico e di cura della persona e non, come ci si sarebbe aspettato, nell’ambito del settore agricolo, ove (come si è già avuto modo di sottolineare altrove: W. Chiaromonte, M. D’Onghia,Migranti, lavoro e pandemia: nuovi problemi, vecchie risposte?, in Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, 2021, I, p. 3 ss.) si è registrato un vero e proprio flop, nonostante le macroscopiche carenze di manodopera che caratterizzavano (e caratterizzano tuttora) il settore.
Ebbene, in questi nove mesi l’esame delle domande di emersione è andato avanti con ritmi che è eufemistico definire blandi; si sono accumulati, di conseguenza, gravissimi ritardi, neppure giustificabili alla luce delle comprensibili difficoltà legate alla gestione della emergenza epidemiologica e alle conseguenti misure di prevenzione che sono necessariamente state adottate. Per avere un’idea di tali ritardi è sufficiente scorrere gli allarmanti dati riportati nella ricognizione svolta in relazione allo stato di avanzamento dell’esame delle domande di regolarizzazione ed emersione che i promotori della campagna “Ero straniero. L’umanità che fa bene” hanno diffuso lo scorso 4 marzo.
Al 31 dicembre 2020, a fonte delle 207.542 domande presentate attraverso il primo canale di regolarizzazione, in tutta Italia erano stati rilasciati solamente 1.480 permessi di soggiorno, vale a dire lo 0,71% del totale. Al 16 febbraio 2021 solo il 5% delle domande era giunto nella fase finale della procedura (percentuale nel frattempo salita, secondo fonti giornalistiche, fino al 12,7%), mentre il 6% si trovava ancora nella fase precedente della convocazione delle parti per la firma del contratto di lavoro in Prefettura e il successivo rilascio del permesso di soggiorno. In circa 40 Prefetture le convocazioni non erano ancora state avviate e le pratiche si trovavano ancora nella fase iniziale di istruttoria. Altrettanto drammatici sono i dati raccolti dalle singole Prefetture: solo a titolo di esempio, a Firenze, a fronte di 4.483 domande ricevute, a fine gennaio 3.000 pratiche risultavano in lavorazione, le convocazioni effettuate erano 100, 90 i permessi rilasciati; con questi ritmi, servirebbero 300 giorni lavorativi per portare a termine tutte le pratiche. A Roma, a fronte di 16.187 domande ricevute, sempre a fine gennaio risultavano 900 pratiche in lavorazione, ma non era ancora stata effettuata alcuna convocazione, né alcun permesso di soggiorno era stato ancora rilasciato; di questo passo occorrerebbero oltre 5 anni per concludere le procedure di emersione in corso. A Milano, a fronte di circa 26.000 domande ricevute, 289 pratiche erano in lavorazione, ma anche qui nessuna convocazione era ancora stata effettuata e nessun permesso era stato rilasciato; in questo caso, si stima che sarebbero necessari oltre 30 anni per portare a termine tutte le pratiche, a meno di auspicabili accelerate.
In relazione al secondo canale di regolarizzazione, la situazione appariva decisamente più tranquillizzante: al 31 dicembre dello scorso anno erano difatti stati rilasciati 8.887 permessi di soggiorno a fronte di 12.986 domande presentate, vale a dire il 68% del totale; di questi permessi temporanei, 346 sono stati successivamente convertiti in permessi di soggiorno per motivi di lavoro. Tuttavia, non si può non rimarcare come i criteri di accesso a tale procedura fossero da subito risultati marcatamente restrittivi (e le poche domande presentate a tale scopo ne sono stata la dimostrazione più lampante), risultando essa, di conseguenza, scarsamente capace di incidere sugli alti tassi di irregolarità che caratterizzano il nostro Paese.
Consapevole di questa drammatica situazione, il Ministero dell’Interno ha cercato di correre ai ripari attraverso un ricorso straordinario a lavoratori in somministrazione per supportare il personale degli Sportelli unici per l’immigrazione nella gestione dell’istruttoria dei procedimenti amministrativi riguardanti l’emersionedei rapporti di lavoro irregolari, l’acquisizione di documentazione integrativa e la conclusione della procedura con la convocazione degli interessati: fra marzo ed aprile sono entrate in servizio 499 nuove unità di personale. Ad oggi i nuovi assunti ammontano – ancora una volta secondo fonti giornalistiche – a 676, e si prevedono a breve ulteriori assunzioni, con l’obiettivo di arrivare presto alle 800 complessivamente previste.
Lo stesso Ministero dell’Interno, tuttavia, ha anche emanato la circolare del 21 aprile 2021, che va in direzione decisamente contraria rispetto a quella esigenza di «favorire l’emersione di rapporti di lavoro irregolari» invocata dal “decreto rilancio”, dal momento che essa sembra inserire nuovi (e ulteriori) ostacoli sul già impervio sentiero che conduce all’emersione dall’invisibilità. La circolare, difatti, afferma che non è possibile ottenere il permesso di soggiorno per attesa occupazione qualora, nelle more della procedura di regolarizzazione, cessi il rapporto di lavoro a tempo determinato in precedenza stipulato (il che non appare affatto improbabile, considerate le lungaggini procedurali alle quali si è già fatto cenno). Secondo il Ministero, difatti, la procedura potrebbe proseguire solo qualora «il datore di lavoro manifesti la volontà di prorogare il precedente rapporto, o anche di volere nuovamente assumere il lavoratore», mentre non sarebbe possibile il rilascio del permesso per attesa occupazione allorché «il datore di lavoro non abbia l’intenzione di volere prorogare il rapporto, né di volere nuovamente assumere il lavoratore». Una tale lettura – come è stato prontamente posto in luce da una ferma presa di posizione inviata il 27 aprile al Presidente del Consiglio e ai Ministeri dell’Interno, del Lavoro, dell’Agricoltura e della Salute da alcune organizzazioni impegnate nella tutela dei diritti dei migranti, alla quale ha fatto seguito il 6 maggio una nota congiunta di analogo tenore di Cgil, Cisl e Uil – si pone apertamente in contrasto con quanto affermato dall’art. 103 del d.l. 34/2020, a mente del quale in caso di perdita del posto di lavoro, anche nel caso di contratto stagionale, va rilasciato un permesso per attesa occupazione, che consente all’interessato di cercare un nuovo impiego. Peraltro, ancora una volta in contrasto con quanto affermato dalla circolare, le organizzazioni firmatarie sottolineano che non possono neppure essere frapposti limiti categoriali nell’accesso all’eventuale nuovo impiego con un diverso datore di lavoro, stante l’espresso richiamo all’applicazione delle garanzie di cui all’art. 22 del testo unico sull’immigrazione (d.lgs. 286/1998), che dovrebbe assicurare, a seguito dell’iscrizione al Centro per l’impiego, il pieno accesso all’intero mercato del lavoro.
Con la scelta di incrementare l’organico deputato a gestire le domande di regolarizzazione ed emersione (sia pure attraverso il ricorso a lavoratori in somministrazione) il Ministero dell’Interno sembrava aver fatto un passo avanti nel tentativo di fronteggiare lo stallo in cui la sanatoria sta versando. La recente circolare, invece, compie due passi indietro, finendo per contrastare – attraverso un’interpretazione che non pare azzardato definire contra legem – con la volontà di emersione che, assieme alla tutela della salute, rappresenta l’obiettivo del provvedimento. Ciò si aggiunge al fatto che sul numero dei potenziali fruitori della sanatoria aveva già considerevolmente inciso una procedura eccessivamente macchinosa, con marcati profili di criticità e condizioni di accesso troppo restrittive (v. di nuovo W. Chiaromonte, M. D’Onghia, Migranti, lavoro e pandemia, cit.), il che si pone, ancora una volta, in contrasto con le finalità perseguite dal “decreto rilancio”. In tutto questo, gli invisibili continuano a restare tali.