La direttiva 2023/970 sulla trasparenza e la parità retributiva tra uomini e donne: il processo e i rimedi

Elisabetta Tarquini

Consigliera presso la Corte d’Appello di Firenze

Il tema dell’effettività del diritto alla parità retributiva e dei rimedi di eventuali violazioni è centrale nella costruzione della direttiva 2023/970. Emerge con chiarezza già dai considerando, nei quali dapprima si richiamano le disposizioni delle fonti primarie e di quelle secondarie in materia di parità, si afferma quindi il dato, incontestabile, dell’esistenza già oggi di un sistema di norme diretto ad assicurare la parità retributiva, poi al quindicesimo considerando si prende realisticamente atto “che il divario retributivo di genere all’interno dell’Unione persiste” e che anzi negli ultimi dieci anni, quindi nel vigore di quelle misure, si è ridotto “solo in misura minima”.

Si tratta di affermazioni che al nostro ordinamento si adattano senz’altro, perché a fronte dell’assolutezza del divieto di discriminazione “in qualunque aspetto” e “condizione della retribuzione” per uno stesso lavoro o un lavoro di uguale valore, contenuto oggi nell’art. 28 del Codice delle pari opportunità, che richiama quasi letteralmente il disposto dell’art. 4 della direttiva 2006/54/CE, è un fatto incontrovertibile l’esistenza anche nel nostro paese di un significativo gender pay gap. Più significativo anzi di quello che appare guardando al dato medio riportato dalle ultime statistiche Eurostat del 2020 che è, per l’Italia, del 4,2%. 

Si tratta infatti, come precisa Eurostat, di misurazioni grezze, che non tengono conto cioè di alcuni fattori che differenziano significativamente le modalità di impiego di uomini e donne, a partire dalle diverse forme contrattuali cui gli uni e le altre accedono con diversa frequenza (per ragioni varie) e dalla persistente diversità del numero medio di ore lavorate dai due gruppi. 

È noto infatti come le donne siano impiegate in percentuale molto più alta degli uomini con contratti part time, come pure il fatto che le carriere femminili mediamente subiscano un numero maggiore di interruzioni (generalmente connesse al lavoro di cura) e siano perciò normalmente più brevi. Così che il gap retributivo aumenta significativamente (e si avvicina quindi ben di più al dato di realtà) ove si abbia riguardo, dei dati riportati da Eurostat, non alla paga oraria, ma a quella mensile e a quella annua[1].

Inoltre a differenziare significativamente lavoratori e lavoratrici come gruppi è il fatto della concentrazione del lavoro femminile in settori dove le retribuzioni sono più basse e la sindacalizzazione minore (il lavoro domestico, ma più generalmente le attività legate alla cura delle persone, nel settore manifatturiero l’industria tessile).

È certo quindi che “le differenze nelle retribuzioni di uomini e donne devono essere interpretate come il risultato di un confronto tra due popolazioni di lavoratori con caratteristiche diverse[2], per quanto tali diverse caratteristiche dipendano anch’esse in misura non irrilevante dalla posizione deteriore delle donne, come gruppo, nel mercato del lavoro. Una posizione determinata in primo luogo dalla disparità del loro impegno nel lavoro di cura rispetto agli uomini (che ha incidenza diversa nei diversi paesi in conseguenza di fattori vari)[3] e, dato verosimilmente collegato al primo, dalla loro segregazione occupazionale in settori meno remunerativi. 

Tuttavia vari studi e rilevazioni hanno cercato di tenere conto delle differenze tra le due popolazioni e perciò di “separare le caratteristiche dei lavoratori (come istruzione, anzianità, qualifica professionale, addestramento sul lavoro, ecc.) da come queste caratteristiche sono valutate (ovvero, retribuite)[4]. E anche simili indagini hanno concluso che “anche se la composizione della forza lavoro tra i sessi rispetto alle caratteristiche personali e occupazionali fosse identica, rimane un considerevole gap tra le retribuzioni di uomini e donne. Detto in altri termini, il lavoro svolto dalle donne è valutato meno rispetto al lavoro svolto dagli uomini[5].

È questo differenziale (la retribuzione diversa per lo stesso lavoro o un lavoro di valore uguale) a formare oggetto, nel diritto positivo, del divieto previsto oggi dall’art. 28 del Codice delle pari opportunità. Un divieto di disparità di trattamento che, già secondo la norma nazionale e la direttiva del 2023 conferma questa lettura, deve intendersi riferito, non solo alle retribuzioni minime (rispetto alle quali opererebbe comunque il parametro della retribuzione sufficiente ex art. 36 Cost., che consente il riferimento ai minimi previsti dall’autonomia collettiva), ma più generalmente a qualsiasi trattamento retributivo. 

Anzi mi sembra ragionevole ritenere che l’ambito applicativo privilegiato del divieto debba essere proprio quello dei trattamenti accessori e superiori ai minimi, più spesso riservati alle professionalità più elevate [6]

I dati del resto confermano che il gender pay gap si allarga al crescere del titolo di studio: è pari al 16,5% tra le persone che non hanno un diploma, al 17% tra i diplomati, ma è quasi il doppio tra i laureati (29%)[7].

E ancora si amplia al crescere del livello gerarchico, in tutte le professioni: è pari al 18,1% tra gli operai specializzati, al 12,1% nelle professioni non qualificate, mentre è massimo tra i dirigenti (33,5%) e tra i professionisti (29,3%)[8].

Assunto quindi che il gap salariale esista e sia consistente, è un fatto tuttavia che la norma dell’art. 28 del Codice delle pari opportunità abbia avuto nella pratica giudiziale scarsissima applicazione, probabilmente per varie ragioni. 

In primo luogo a una simile marginalità ha contribuito la ricostruzione della discriminazione come motivo illecito, operata dalla giurisprudenza assolutamente prevalente fino a tempi recenti[9] (il revirement della Corte di Cassazione risale, come è noto alla sentenza 6675/2016), con le conseguenti difficoltà probatorie per chi l’affermasse. 

Né probabilmente è stato irrilevante nel medesimo senso l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità che, almeno a partire da Cass. S.U. 9.5.1993, n. 6030, ha escluso l’esistenza, nel rapporto di lavoro privato, di un principio di parità di trattamento contrattuale, oltre la“parità nei minimi”, così che ogni trattamento differenziato al di sopra di tali minimi era considerato legittimo, a meno che non vi fosse prova della sua natura discriminatoria, ma intesa la discriminazione nell’accezione “soggettiva” di cui si è detto[10].

In ogni caso, anche ritenendo invece sindacabile il trattamento differenziale alla luce del principio di buona fede contrattuale, come aveva fatto una parte della giurisprudenza di merito (e come quella maggioritaria riteneva consentito solo nell’ambito di procedure concorsuali o comunque selettive), in effetto un’indagine fondata su quel canone si sarebbe, e si è, quando condotta, scontrata con difficoltà probatorie spesso insormontabili per la parte attrice, tenuta a superare la presunzione di buona fede prevista dal codice civile. 

Il revirement della Corte di Cassazione (di cui alla citata Cass. 6675/2016) nel senso del carattere oggettivo dei divieti di discriminazione e la conseguente applicazione anche da parte del giudice nazionale del regime probatorio agevolato previsto per le discriminazioni dal diritto dell’Unione apre allora nuove prospettive di tutela anche a fronte di trattamenti differenziali sul piano retributivo. 

Certo anche così l’onere gravante sulla parte che si afferma discriminata non è agevole e su questo incide la disciplina dettata dalla direttiva, che rileva, sul piano applicativo, mi pare, più che per i principi che afferma (che si tratta, per lo più parte, di ribadire divieti e diritti già presenti nelle fonti primarie e derivate dell’Unione),  quanto per gli strumenti che appresta al fine di assicurare l’effettiva agibilità di quei diritti.

Perché è un fatto che un primo ostacolo alla comparazione sia oggi senz’altro rappresentato dalla difficoltà, per il lavoratore o la lavoratrice che assumano di essere discriminati, di avere accesso ai dati retributivi dei colleghi, giacché la normativa interna in materia di parità non prevede allo stato, neppure all’esito delle modifiche apportate da ultimo dalla L. 162/2021, il diritto della lavoratrice o del lavoratore ad ottenere dal datore di lavoro informazioni relative alla retribuzione corrisposta agli altri dipendenti che svolgano analoghe mansioni.

Di conseguenza secondo la disciplina oggi vigente il mezzo ordinario, per i lavoratori e le lavoratrici, di acquisire i dati in questione è l’accesso al rapporto sulla situazione del personale, che i datori di lavoro pubblici e privati che impieghino più di cinquanta dipendenti (erano cento fino a dicembre 2021) sono tenuti a redigere e a trasmettere ogni due anni alle rappresentanze sindacali aziendali e cui hanno accesso gli uffici della Consigliera di Parità a norma dell’art. 46 del D.lgs. 198/2006, da ultimo modificato dalla L. 162/2021, e che contiene anche il riferimento alle retribuzioni e alle relative componenti effettivamente corrisposte al personale, distinto per sesso, nonché ai criteri adottati per le progressioni di carriera.

Il rapporto, che deve essere trasmesso alle rappresentanze sindacali aziendali, deve menzionare in ogni caso “il numero dei lavoratori occupati di sesso femminile e di sesso maschile, il numero dei lavoratori di sesso femminile eventualmente in stato di gravidanza, il numero dei lavoratori di sesso femminile e maschile eventualmente assunti nel corso dell’anno, le differenze tra le retribuzioni iniziali dei lavoratori di ciascun sesso, l’inquadramento contrattuale e la funzione svolta da ciascun lavoratore occupato, anche con riferimento alla distribuzione fra i lavoratori dei contratti a tempo pieno e a tempo parziale, nonché l’importo della retribuzione complessiva corrisposta, delle componenti accessorie del salario, delle indennità, anche collegate al risultato, dei bonus e di ogni altro beneficio in natura ovvero di qualsiasi altra erogazione che siano stati eventualmente riconosciuti a ciascun lavoratore”.

         Esso deve inoltre contenere “informazioni e dati sui processi di selezione in fase di assunzione, sui processi di reclutamento, sulle procedure utilizzate per l’accesso alla qualificazione professionale e alla formazione manageriale, sugli strumenti e sulle misure resi disponibili per promuovere la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, sulla presenza di politiche aziendali a garanzia di un ambiente di lavoro inclusivo e rispettoso e sui criteri adottati per le progressioni di carriera” (entrambi i riferimenti sono all’art. 46 del D.L.gs. 198/2006). 

In fatto poi l’accesso ai dati contenuti nel rapporto è oggi disciplinato dal D.M. 29.3.2022, che prevede che esso sia conservato dalla consigliera di parità e dalle rappresentanze sindacali aziendali e da essi consegnato al lavoratore o alla lavoratrice che ne facciano richiesta al fine di tutelare i propri diritti in giudizio.

Quelli riportati nel rapporto sono dati indispensabili al fine di poter operare una qualsiasi valutazione comparativa tra i trattamenti retributivi di lavoratori diversi, così che la possibilità per i lavoratori e le lavoratrici di accedervi risulta cruciale per la costruzione del giudizio di comparazione in cui si articola l’accertamento della discriminazione. Il che significa che, allo stato, la possibilità di costruire un simile giudizio non è propriamente agevole per il personale dipendente di aziende non soggette all’obbligo di informazione, cioè, in un sistema come il nostro notoriamente articolato sull’assoluta prevalenza delle imprese medio piccole, per un numero importante di lavoratori e di lavoratrici.  

Sotto questo profilo mi sembra che, ai fini della tutela giudiziale, il diritto all’informazione oggi affermato in via generale dall’art. 7 della direttiva sia importante, molto importante. Direi importante proprio perché ha un ambito di applicazione generale, diversamente dalle comunicazioni previste dell’art. 9 della direttiva, esse relative al divario di genere nelle retribuzioni, che si applicano obbligatoriamente solo ai datori di lavoro che impiegano più di 100 dipendenti, una consistenza occupazionale che taglia fuori un bel numero di imprese in un contesto produttivo come quello italiano.

Ed è più significativa questa previsione, l’affermazione dell’obbligo di informazione di cui all’art. 7, in rapporto alle conseguenze della sua violazione sul piano della prova in giudizio della discriminazione retributiva. 

Perché, quanto, alla prova l’art. 18 della direttiva ribadisce in via generale, al primo comma, l’applicazione, nelle controversie in cui si discuta di discriminazione retributiva, dell’alleggerimento dell’onere probatorio proprio della normativa antidiscriminatoria, il che rappresenta la riaffermazione di un principio, che tuttavia fino ad oggi, in relazione agli orientamenti della giurisprudenza di legittimità cui facevo cenno, ha fatto molta fatica a trovare applicazione. 

Tuttavia in caso di violazione degli obblighi di trasparenza da parte del datore di lavoro è già alla violazione dell’obbligo che è fatta seguire dalla direttiva la presunzione della natura discriminatoria della scelta, secondo un meccanismo che mi sembra rimandi ai principi affermati dalla Corte di Giustizia già in Danfoss e che conferma la centralità assegnata dalla direttiva alla trasparenza retributiva come strumento di effettività del diritto alla parità. 

         La ricerca dell’effettività, la volontà di superare cioè la sconfortante affermazione del quindicesimo considerando, ispira in modo molto evidente anche le altre disposizioni relative alla tutela giudiziale e ai rimedi delle violazioni.

         Così in primo luogo in relazione al criterio di costruzione del giudizio di comparazione, che è, mi sembra, l’altro grosso ostacolo alla prova di trattamenti  retributivi discriminatori.

Perché l’art. 19 della direttiva dispone che la comparazione non debba avvenire necessariamente tra soggetti effettivamente dipendenti dello stesso datore di lavoro in coincidenza con il rapporto di lavoro della lavoratrice che si affermi discriminata (che è una comparazione non agevole in settori lavorativi in cui la manodopera è in gran parte femminile), prevedendo invece, in primo luogo, che la comparazione sia estesa, dice il primo paragrafo dell’art. 19, “alla fonte unica che stabilisce le condizioni retributive”. E qui l’indagine può estendersi per esempio a tutti i dipendenti di un gruppo societario, per i quali il trattamento retributivo sia disciplinato in maniera unitaria, ma anche alle previsioni della contrattazione collettiva, quando il trattamento differenziale derivi direttamente dall’applicazione di norme dell’autonomia collettiva (come non infrequentemente accade nei casi di attribuzione di voci retributive accessorie connesse, per esempio, alla presenza per un tempo determinato, e che non tengono conto delle assenze per maternità o congedo parentale).

         E ancora il secondo comma dell’art. 19 consente di estendere la comparazione anche ai trattamenti retributivi corrisposti in passato dal datore di lavoro e infine il terzo paragrafo afferma la possibilità di effettuare la comparazione con un terzo ipotetico, anche attraverso il riferimento a dati statistici (si potrebbe pensare qui, per esempio, alla valorizzazione delle differenze medie del settore produttivo di appartenenza della datrice di lavoro).

         Il tema dell’effettività percorre poi tutta la disciplina dei rimedi, in primo luogo il risarcimento del danno, che l’art. 16 della direttiva afferma debba consistere nel rispristino dello status quo ante(peraltro in accordo con la nostra generale disciplina codicistica), per cui il lavoratore o la lavoratrice che ha subito un danno deve essere posto “nella posizione in cui la persona si sarebbe trovata se non fosse stata discriminata in base al sesso o se non si fosse verificata alcuna violazione dei diritti o degli obblighi connessi al principio della parità di retribuzione”. Gli Stati membri sono quindi tenuti ad assicurare che il risarcimento o la riparazione comprendano “il recupero integrale delle retribuzioni arretrate e dei relativi bonus o pagamenti in natura, il risarcimento per le opportunità perse, il danno immateriale, i danni causati da altri fattori pertinenti che possono includere la discriminazione intersezionale, nonché gli interessi di mora”.  

Oltre l’ambito della reintegrazione delle retribuzioni perse resta quindi un margine piuttosto ampio per la valutazione discrezionale del giudice in ordine alle altre voci di danno e ancora di più alla relativa quantificazione (si pensi per esempio al “danno immateriale” o ancora all’incidenza dell’eventuale discriminazione intersezionale). Una valutazione che, mi sembra dovrebbe essere ispirata dai criteri della proporzionalità e della dissuasione, perché sono espressamente richiamati dall’art. 16. 

Peraltro quanto alla finalità dissuasiva dello strumento rimediale, spero di non essere ottimista nel dire che, se la trasposizione della direttiva sarà adeguata, potrebbe non riproporsi in questo caso il dibattito giurisprudenziale in ordine al danno sanzione (per moltissimo tempo ritenuto estraneo dalla Cassazione alle funzioni del risarcimento del danno nel nostro ordinamento, un indirizzo in parte mutato limitatamente ad alcune fattispecie specifiche, tra le quali proprio il danno da discriminazione). Questo perché la direttiva prevede, oltre al risarcimento destinato alle persone vittime di discriminazioni retributive, l’obbligo degli stati membri di introdurre sanzioni “efficaci e dissuasive” delle violazioni e di garantirne l’applicazione. I due rimedi (risarcimento del danno e sanzioni) restano quindi adeguatamente distinti, con il risarcimento del danno connotato di conseguenza da una primaria finalità di riparazione, effettiva e integrale, del pregiudizio patito dalle vittime, compreso quello non economico, questo da quantificarsi in relazione, in proporzione, dice la direttiva, all’importanza del bene leso.

         Oltre al risarcimento del danno e alle sanzioni, il sistema rimediale previsto dalla direttiva si articola intorno a un terzo strumento, uno strumento classico del diritto antidiscriminatorio, cioè l’ordine di cessazione del comportamento illecito e di rimozione delle discriminazioni (l’art. 17 dice di un provvedimento che contiene misure volte a garantire che i diritti o gli obblighi connessi al principio della parità di retribuzione siano applicati), assistito dalla previsione di sanzioni pecuniarie, suscettibili di essere reiterate, in caso di inadempimento. Sarà interessante vedere come l’Italia darà attuazione a quest’obbligo, in un sistema che ad oggi esclude i rapporti di lavoro dall’ambito applicativo di uno strumento di coercizione indiretta come l’art. 614 bis c.p.c.

         Ma la ricerca dell’effettiva agibilità per le persone dei diritti nascenti dal principio paritario ispira altre due disposizioni che mi sembrano rilevanti e, che, mi pare di poter dire, avranno effetti diversi nell’ordinamento interno. La prima riguarda il regime della prescrizione, che si trova disciplinato all’art. 21 della direttiva. Qui mi sembra che la recente affermazione della Corte di Cassazione[11] che ha escluso la decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori in ogni caso, in esito alle modifiche apportate alla disciplina limitativa dei licenziamenti a partire dalla legge Fornero, renda l’ordinamento interno già conforme alla previsione della direttiva, per quanto a partire da presupposti diversi.

La cosa mi sembra un po’ differente per la disposizione della direttiva che riguarda il regime delle spese.

L’art. 22 della direttiva prevede infatti che “Gli Stati membri provvedono affinché, qualora un procedimento relativo a un ricorso in materia di discriminazione retributiva abbia esito positivo per il convenuto, gli organi giurisdizionali nazionali possano valutare, conformemente al diritto nazionale, se la parte ricorrente soccombente abbia motivi ragionevoli per presentare ricorso e, in tal caso, se sia opportuno non esigere che tale parte ricorrente sostenga le spese di causa”.

         Intanto è rilevante già il fatto che la direttiva delle spese si occupi, anche questo rientra, mi pare, nella ricerca dell’effettività che ispira l’intervento dei legislatori dell’Unione. Perché credo sia un fatto verificato da chiunque abbia un’esperienza pratica del diritto del lavoro quanto la disciplina delle spese, in esito alle modifiche dell’art. 92 c.p.c., abbia inciso e incida sulle dimensioni del contenzioso, riducendolo in misura sostanziale. Certo si è arginata così una pratica non condivisibile, quale era quella della compensazione a prescindere in caso di soccombenza dei lavoratori, ma non è detto che il rimedio non sia stato peggiore del male, in quanto nemmeno l’intervento della Corte Costituzionale del 2018 (la sentenza è la 77/2018) consente di dare rilievo alla, non necessaria certo, ma almeno normale, diversa possibilità di accesso delle parti al giudizio per ragioni economiche. Così che oggi obiettivamente la selezione nell’accesso alla giustizia, soprattutto nei gradi cosiddetti superiori, avviene anche e molto in relazione alle disponibilità economiche delle parti soccombenti. Un risultato, mi sembra, non auspicabile.

         Nei giudizi di discriminazione poi il carico delle spese potrebbe essere anche significativo, considerato che si tratta normalmente di giudizi di un certo impegno istruttorio. 

A fronte di questo l’art. 22 della direttiva guarda alla condizione di asimmetria, se non sostanziale, almeno informativa, delle parti, quando collega la facoltà degli Stati di prevedere la compensazione delle spese all’esistenza di un ragionevole motivo per supporre la discriminazione in capo al lavoratore o alla lavoratrice soccombente. Una condizione questa che mi sembra l’interprete debba leggere alla luce dello scopo perseguito dalla direttiva, quello cioè di dare effettività al principio paritario, così che probabilmente il criterio per disporre la compensazione potrebbe non essere esattamente corrispondente a quello delle gravi ed eccezionali ragioni, previsto oggi dall’art. 92 c.p.c

Infine un’ultima notazione, che riguarda ancora l’accesso alla giustizia. Sia i considerando in più punti sia l’articolato della direttiva attribuiscono grande rilievo al ruolo degli organismi di parità, nella fase di raccolta dei dati, nell’ausilio ai lavoratori e alle lavoratrici nell’accesso a quei dati, nella rappresentanza in giudizio dei loro interessi. In via generale il ruolo degli organismi di parità è riassunto nell’art. 28 della direttiva secondo cui “Fatta salva la competenza degli ispettorati del lavoro o di altri organismi deputati a garantire i diritti dei lavoratori, comprese le parti sociali, gli organismi per la parità sono competenti per le questioni che rientrano nell’ambito di applicazione della presente direttiva”.

In relazione a questa centralità l’ultimo comma dell’art. 28 dispone coerentemente che “Gli Stati membri forniscono ai rispettivi organismi per la parità le risorse adeguate necessarie per svolgere efficacemente le loro funzioni in relazione al rispetto del diritto alla parità di retribuzione”. 

Ora credo sia nota a tutti la condizione attuale soprattutto degli uffici territoriali della Consigliera di Parità, dove si svolge oggi in effetto un servizio praticamente volontario, in una condizione quindi sicuramente inadeguata ad assicurare effettività ai diritti la cui tutela è affidata anche agli organismi di parità.

Ecco a me pare che, tra tutte le modifiche dell’ordinamento interno richieste dall’attuazione della direttiva, l’attribuzione agli uffici della Consigliera di una dotazione di mezzi e di personale minimamente idonea ai compiti loro rimessi dovrebbe essere la prima ad essere attuata. Lo dico senza grandi speranze che ciò accada, ma spero che per una volta a pensare male, oltre che far peccato, si sbagli pure.

Elisabetta Tarquini Consigliera della Corte d’Appello di Firenze


[1] Si vedano i dati tratti dalle statistiche Eurostat riportati da ROSTI, Cosa sappiamo e cosa non sappiamo sul gender pay gap, in Il Sole 24ore, 10.9.2022.

[2]Villa, Gender pay gap, in http://www.ingenere.it, 23.4.2010.

[3] Ancora Rosti, Cosa sappiamo e cosa non sappiamo sul gender pay gap, cit. rileva come sommando il tempo dedicato alla produzione domestica e quello dedicato alla produzione per il mercato, le donne occupate a tempo pieno lavorano mediamente più ore degli uomini (dato Eurostat 2018) e anche l’indice di asimmetria nella condivisione del lavoro familiare, calcolato dall’Istat, conferma che il 70% del lavoro familiare è svolto dalle donne anche nelle coppie con figli in cui entrambi i coniugi sono occupati (dati 2013).

[4] VILLA, Gender pay gap, cit.

[5] Cfr. ancora, VILLA, ibidem.

[6] Si veda ad esempio il caso deciso da Corte App. Torino 25.9.2017, GI 2018, 2, 426, relativo a due figure apicali.

[7] Ancora ROSTI, Cosa sappiamo e cosa non sappiamo sul gender pay gap, cit.

[8] Ancora ROSTI, ibidem.

[9] Per l’orientamento tradizionale che, per un verso, affermava una nozione aperta e non tassativa dei fattori di discriminazione e per l’altro operava una sostanziale assimilazione tra atto discriminatorio e atto fondato su di un motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c, perciò includendo nella nozione di discriminazione il requisito necessario di un intento soggettivo di discriminare, quale motivo esclusivo dell’atto, che doveva essere provato da chi l’affermasse  si vedano ex plurimis Cass. 9.7.2009, n. 16155, Cass. 1.12.2010, n. 24347, Cass.  05.11.2012, n. 18927. Il mutamento di indirizzo si deve alla decisione 6675/2016 della Corte di Cassazione già sopra menzionata.

[10] cfr. C 10.4.2006, n. 8310, secondo cui al giudice non sarebbe consentito neppure un controllo di ragionevolezza “sotto il profilo del rispetto delle clausole generali di correttezza e buona fede, che non sono invocabili in caso di eventuale diversità di trattamento non ricadente in alcuna delle ipotesi legali – e tipizzate – di discriminazione vietate, a meno che il rispetto di tali clausole discenda dalla necessità di comparazione delle situazioni di singoli lavoratori da parte del datore di lavoro che, nel contesto di una procedura concorsuale o selettiva, debba operare la scelta di alcuni di essi”.

[11] Cfr. Cass. 26246/2022 e 30957/2022

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