Francesco Rizzi
Avvocato del Foro di Brescia, Cultore della materia di Diritto del lavoro e Diritto antidiscriminatorio presso l’Università di Brescia
5 Maggio 2021
L’ordinanza del Tribunale di Bologna accerta il carattere discriminatorio di un criterio (le regole di funzionamento dell’algoritmo di Deliveroo) che preclude l’accesso alle migliori condizioni di lavoro con la piattaforma. I riders devono scegliere se scioperare e ridurre le proprie opportunità di accedere prima alle fasce di lavoro più gettonate oppure, per potervi accedere, rinunciare allo sciopero.
La sanzionabilità di questa forma di discriminazione deriva direttamente dai divieti sostanziali di discriminazione contenuti nelle direttive (dalle nozioni di discriminazione diretta e indiretta), ma trova poi nell’integrazione alla disciplina apportata dal legislatore nazionale italiano (come quello di altri Stati membri) la garanzia procedurale dell’azione collettiva affidata a organismi di garanzia (nel caso delle discriminazioni di genere in ambito lavorativo la Consigliera di Parità) le organizzazioni sindacali e le associazioni rappresentative dell’interesse leso (art. 5 co.2 d.lgs. 216/2003 nel caso di specie).
Nel comunicato stampa rilasciato da Deliveroo all’esito della decisione del Tribunale di Bologna, la società dichiara:
“La correttezza del nostro vecchio sistema … è confermata dal fatto che nel corso del giudizio non è emerso un singolo caso di oggettiva e reale discriminazione. La decisione si basa, esclusivamente, su una valutazione ipotetica e potenziale priva di riscontri concreti”.
Se con l’ordinanza la giudice di primo grado avesse condannato la società dopo aver accertato una discriminazione “ipotetica o potenziale”, ben fondate sarebbero le ragioni di proporre appello. Ma così non è.
La Corte di giustizia ha chiarito che rientrano nella nozione di discriminazione anche quei casi in cui non sia un soggetto che ha subito una condotta discriminatoria a lamentarne il carattere discriminatorio, per la prima volta nel caso Feryn. Ha poi ripreso e approfondito questa dottrina nei casi Accept e NH (ma essa trova applicazione anche nei casi e.g. Test-Achats – discriminazione di genere nell’accesso a beni e servizi- e Age Concern divieto di discriminazione per età in materia di occupazione).
In Feryn, la Corte ha accertato la sussistenza di una discriminazione diretta connessa alla razza e all’origine etnica in una vicenda che riguardava le dichiarazioni pubbliche del titolare di un’impresa. Quest’ultimo, a margine di una procedura di selezione del personale, aveva dichiarato in una intervista che non sarebbero stati assunti cittadini alloctoni in quanto non graditi alla clientela.
L’azione era stata promossa dal Centro per le pari opportunità e per la lotta contro il razzismo, autorità amministrativa indipendente e nazionale del Belgio.
Anche in quella occasione, per il datore di lavoro, mancava un denunciante identificabile che affermasse di essere stato vittima di tale discriminazione.
L’obiezione si fondava su due elementi. Da un lato la definizione di discriminazione, che fa riferimento a una persona che è trattata meno favorevolmente in ragione di un fattore vietato, rispetto a un’altra in una situazione analoga. Dall’altro la tutela processuale imposta dalle direttive, che prevede rimedi giurisdizionali per tutte le persone che sono vittime di discriminazione e affida agli organismi d’interesse pubblico o alle associazioni sindacali o rappresentative dell’interesse leso l’azione in giudizio “per conto o a sostegno della persona che si ritiene lesa”.
La Corte di giustizia ha però chiarito che la questione relativa alla nozione di discriminazione contenuta nelle direttive deve essere distinta da quella relativa ai rimedi giurisdizionali previsti dalle stesse che costituiscono soltanto “prescrizioni minime” e non precludono agli Stati membri di introdurre o mantenere disposizioni più favorevoli.
Secondo la Corte, l’assenza di un denunciante identificabile non permette di concludere per l’assenza di qualsivoglia discriminazione. La nozione di discriminazione si deve desumere dall’obiettivo delle direttive, ovvero quello di promuovere le condizioni per una partecipazione più attiva sul mercato del lavoro. Tale obiettivo sarebbe difficilmente raggiungibile se la sfera di applicazione dei divieti di discriminazione fosse circoscritta alle sole ipotesi in cui un candidato scartato per un posto di lavoro e che si reputi vittima di una discriminazione abbia avviato una procedura giudiziaria nei confronti del datore di lavoro.
Se la questione di prevedere un rimedio (la cd. actio popularis) ai casi di discriminazione collettiva è rimessa agli Stati membri (e in Italia, per il caso delle convinzioni sindacali, il co.2 dell’art. 5 del d.lgs. 216/2003), le forme di discriminazione coperte dalla direttiva vanno desunte dal tenore letterale e dallo scopo della stessa, e non dai rimedi minimi che gli Stati membri sono tenuti a garantire.
Non ci si può legittimamente aspettare che qualcuno si candidi a un posto di lavoro o a una collaborazione lavorativa o eserciti uno dei diritti ricompresi nella nozione di condizioni di lavoro, se sa in anticipo che, a causa di un fattore vietato, non ha alcuna possibilità di essere assunto, selezionato o si vedrà negato un diritto connesso allo status di lavoratore. Tali dichiarazioni/prassi aziendali hanno un effetto “tutt’altro che ipotetico”, come spiega efficacemente l’AG Maduro nella sua opinione nella controversia Feryn.
Le medesime considerazioni sono ben applicabili al caso di Bologna, dove la regola dell’algoritmo impone al lavoratore di scegliere se scioperare – manifestare le proprie convinzioni sindacali – o trovare occasioni migliori di lavoro. Se la tutela non potesse essere azionata, il datore di lavoro potrebbe aggirare il divieto di discriminazione in modo preventivo e, nel caso di specie, togliersi a monte “il problema” di gestire le conseguenze dello sciopero. Non si tratta di anticipare la tutela, ma di sanzionare il comportamento discriminatorio quando esso si verifica.
Feryn, Accept e NH sono peraltro casi in cui si presentava la difficoltà di stabilire se dichiarazioni inerenti ai criteri di selezione potessero avere un effettivo potere lesivo rilevante ai fini dell’applicabilità della normativa antidiscriminatoria, ovvero rispecchiassero i criteri di selezione effettivamente impiegati (Feryn), potessero essere riferite alla società convenuta in giudizio (Accept), potessero rientrare nell’ambito di applicazione del divieto di discriminazione anche quando non era in corso una procedura di selezione del personale (NH).
Nel caso di Bologna, tale difficoltà non si pone, perché è pacifico che le regole di funzionamento dell’algoritmo si traducono in clausole contrattuali a cui il/la rider deve sottostare per lavorare per (o come dice Deliveroo “collaborare con”) la piattaforma.
Dall’analisi della giurisprudenza sull’azione collettiva contro le discriminazioni senza vittime identificate o identificabili (che nel nostro paese ha interessato in particolare l’esclusione di cittadini stranieri in ragione del titolo di soggiorno da misure di sicurezza o assistenza sociale) si possono ricavare due considerazioni conclusive.
Da un lato, questa giurisprudenza ribadisce come il principio di eguaglianza, attraverso i divieti di discriminazioni e in particolare quando questi sono azionati con l’azione collettiva, può più efficacemente riequilibrare la sproporzione di potere che esiste tra chi può discriminare e chi è discriminato.
Dall’altro ribadisce che, per la tutela antidiscriminatoria, il termine “ipotetico” deve quindi essere riferito, come noto, solo al campo della comparazione che può essere anche non contestuale o appunto meramente ipotetica, allorché un trattamento sfavorevole risulti collegato in modo induttivo, sulla base anche della comune esperienza, alla presenza di uno dei fattori di rischio.
Può valere la pena chiedersi se questa forma di tutela sia un caso isolato. Al di fuori del panorama giuslavoristico e delle note tutele agli interessi collettivi che il diritto del lavoro prevede, si può segnalare la L. 12 aprile 2019, n. 31, che ha introdotto (con un’entrata in vigore rimandata da aprile 2020 ad aprile 2021) una nuova disciplina dell’azione di classe, originariamente contenuta nel codice del consumo e ora trasfusa nel codice di procedura civile del titolo VIII-bis del libro quarto, rubricato “Dei procedimenti collettivi”.
L’azione di classe è esperibile da tutti coloro che avanzino pretese risarcitorie in relazione a lesione di “diritti individuali omogenei”. Ed è all’art. 840 sexiesdecies che è estesa la c.d. azione inibitoria collettiva.
La norma prevede che chiunque abbia interesse alla pronuncia di una inibitoria di atti e comportamenti, posti in essere in pregiudizio di una pluralità di individui o enti, può agire per ottenere l’ordine di cessazione o il divieto di reiterazione della condotta omissiva o commissiva. L’azione, proponibile anche da soggetti associativi iscritti in un apposito registro ministeriale, può essere esperita nei confronti di imprese o di enti gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità relativamente ad atti e comportamenti posti in essere nello svolgimento delle loro attività.
Ci potranno essere quindi nuovi ambiti – al di là di quelli del lavoro o del consumo – in cui verrà lamentato il carattere ipotetico della violazione di diritti in memorie, atti di appello e commenti. Proprio l’elaborazione dell’operatività dei divieti di discriminazione fornirà efficaci argomenti di replica.