Marco Peruzzi
Professore associato di Diritto del lavoro, Università di Verona
Nella mia breve riflessione vorrei focalizzarmi su un interrogativo.
Come interagiscono le variabili che determinano il gender pay gap (d’ora in poi, gpg) con le conseguenze della pandemia sul lavoro, in particolare con la diffusione del lavoro agile?
Secondo un report dell’Inapp, questa interazione rischierebbe anzitutto di inasprire il divario retributivo tra uomini e donne.
In questo report si analizza la variabile dell’attitudine allo smart working e si registra come un’elevata attitudine a lavorare da remoto sia più frequente nelle donne, nel settore dei servizi, a più elevata occupazione femminile e particolarmente inciso dalla crisi (si parla, infatti, di “she-cession”), e si evidenzia che i lavoratori con un’elevata attitudine al lavoro agile hanno un vantaggio retributivo. Lo stesso report, però, cerca di capire, attraverso una proiezione econometrica, quale sarebbe l’impatto di genere a livello retributivo, qualora il lavoro agile si affermasse come nuovo modello organizzativo. Il risultato che ne esce è che i benefici tenderebbero ad essere maggiori per gli uomini. E questo perché il vantaggio derivante da una maggiore attitudine allo smart working cresce al crescere del reddito da lavoro e, quindi, si apprezza soprattutto ai livelli retributivi più alti, quelli occupati principalmente da uomini.
Da questa proiezione si comprende come la diffusione del lavoro agile possa avere un impatto negativo sul divario di genere in conseguenza della combinazione di almeno tre classiche cause del gpg: la segregazione orizzontale, la segregazione verticale, lo svantaggio delle donne nella negoziazione individuale dei superminimi.
L’utilizzo del lavoro agile potrebbe, tuttavia, anche consentire di attenuare o disinnescare alcuni fattori causali del gpg?
La risposta positiva a questa domanda dipende da due condizioni.
La prima è che si raccolgano davvero le potenzialità di questa forma organizzativa, al di là della sua “deformazione emergenziale”.
La seconda è che si eviti di cadere nel tranello della mela avvelenata.
Una delle potenzialità del lavoro agile è rappresentata dalla possibilità di articolare la prestazione sulla base di moduli organizzativi non irrigiditi sulle cadenze dell’orario normale aziendale e al di fuori dei locali aziendali. Agevolando la conciliazione, questo può consentire di eliminare, o quantomeno attenuare, tra i fattori causali del gpg, quelli che si ricollegano alla minor disponibilità temporale delle donne.
Attenzione però al rischio che l’assenza di vincoli di orario non si traduca in assenza di limiti di orario; la necessità di una riflessione sul problema della quantificazione della prestazione e della sua conseguente adeguata remunerazione è confermata dalle difficoltà che si rinvengono in questo caso nella regolazione del lavoro straordinario.
Attenzione poi a non pensare alla conciliazione come declinata meramente al femminile, errore in cui incorre la stessa l. 81/17 nella modifica del 2018 (art. 18, co. 3-bis), laddove prevede una priorità di accesso al lavoro agile solo per le lavoratrici nei tre anni successivi alla conclusione del congedo di maternità, dimenticandosi dei padri.
Attenzione ancora a quelle prassi aziendali che presentano alle donne il lavoro agile come un benefit da scambiare con i premi di produttività, proposta alquanto paradossale, se solo si ricorda che l’istituto è concepito dal legislatore anche come strumento volto esso stesso a incrementare la produttività.
Ferme queste condizioni, l’impatto del lavoro agile sul gpg potrebbe essere positivo.
Le sue potenzialità portano a ragionare sulla misurazione della produttività e sui criteri di attribuzione dei premi lontano da meccanismi semplificati basati sul dato nominale del numero di ore lavorate o dei giorni di presenza in servizio. Meccanismi questi che di certo possono garantire maggiormente la trasparenza e la rendicontabilità delle valutazioni, e non a caso sono molte volte richiesti dagli stessi lavoratori e dagli stessi sindacati. Sono meccanismi questi che, d’altra parte, possono risultare indirettamente discriminatori o comunque funzionare a detrimento delle lavoratrici.
L’organizzazione per obiettivi e per carichi di lavoro rende evidente la necessità e funzionalità di altri modelli di valutazione, sistemi di valutazione del valore del lavoro costruiti anche a partire dalle competenzerichieste e percorsi di misurazione del rendimento e criteri di attribuzione dei bonus che guardino alle competenze maturate, all’apporto attivo delle lavoratrici e dei lavoratori al processo di funzionamento e innovazione aziendale.
Percorsi che, allontanando il rischio delle menzionate discriminazioni indirette di genere, possono disinnescare alcuni fattori causali del gpg, se chiaramente sono costruiti con un approccio neutro sotto il profilo del genere.
Proprio a tal riguardo, particolarmente significativo si presenta il DDL S. 1423 presentato al Senato, prima firmataria Parente, assegnato in commissione a febbraio 2020. Non solo propone un utile aggiornamento della normativa sui report di genere, richiedendo alle aziende dati più dettagliati sulle retribuzioni nonché sulla diffusione del lavoro agile e stabilendo l’istituzione di un “Sistema nazionale di certificazione sulla parità di genere”, con incentivi fiscali per le imprese dotate di bollino rosa. Lo stesso DDL prevede altresì che le parti sociali individuino sistemi non discriminatori di valutazione delle mansioni e schemi neutrali di valutazione del lavoro.
Da segnalare come l’istituzione di questo sistema di certificazione fosse inserita tra le riforme del Recovery Plan nella prima bozza aggiornata al 6 dicembre 2020, ma non risulti più espressamente menzionata nell’ultima stesura del Piano, approvata il 12 gennaio 2021.
Una risposta.
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