Lavoro agile e non solo: fragili le lavoratrici o deboli i diritti?

Anna Rita Tinti

Ricercatrice e docente di Diritto del lavoro, Università di Bologna

Sappiamo cosa accade al lavoro delle donne nell’emergenza: i numeri ufficiali stanno confermando le previsioni peggiori, e nei prossimi mesi affineremo l’analisi distinguendo fra le lavoratrici che hanno perso il lavoro in ragione della precarietà e quelle che, strette da esigenze di cura, vi hanno “volontariamente” rinunciato (e dovremo chiederci quanto la stessa povertà/precarietà del lavoro incida anche sulla scelta di abbandonarlo).

Sappiamo pure quanto intimamente contraddittorie siano le condizioni delle lavoratrici “fortunate” che il lavoro lo hanno conservato svolgendolo a distanza. Tralascio consapevolmente la questione della qualificazione dell’homeworking pandemico – quanto (poco) sia smart/agile, quanto (forse) somigli al telelavoro – per accogliere un dato normativo testuale: anche questo lavoro a distanza fa riferimento – pur discostandosene – ai “principi” della disciplina ordinaria sul lavoro agile, alla quale andrà dunque indirizzata l’attenzione in vista del “dopo”. Infatti, se il lavoro delle donne deve diventare “fattore di rilancio” occorre chiedersi quanto del “prima” sia compatibile con l’ambizioso proposito, e intanto cogliere i segnali provenienti dall’esperienza emergenziale: soprattutto a proposito della relazione fra lavoro e cura – di cui l’ultimo anno ha offerto una rappresentazione di rara evidenza – e dunque del nodo rappresentato dalla conciliazione dei tempi.

Vedo uno di tali segnali nella tendenza normativa ad attrarre i soggetti con esigenze di cura nell’area delle “fragilità”, secondo un modello comune alla disciplina ordinaria del lavoro agile e a quella emergenziale – scontate le differenze nelle situazioni e nelle tecniche impiegate – e che si esprime, in particolare, nella definizione delle condizioni di accesso alla modalità agile. Mi riferisco, quanto alla disciplina ordinaria, alla priorità riservata alle lavoratrici madri nei tre anni successivi alla conclusione del congedo di maternità (oltre che ai genitori di figli con disabilità: legge 81/2017, art.18, co. 3bis); quanto alla normativa d’emergenza, al vero e proprio diritto attribuito, a determinate condizioni, ai lavoratori genitori, in diversi interventi (a partire dal dl 34/2020). Sempreché, naturalmente, le mansioni siano compatibili. 

Beninteso, priorità e/o diritto alla modalità agile perseguono finalità ragionevoli, talora vitali.

Nell’emergenza pandemica si è trattato infatti di rispondere all’urgenza dell’assistenza ai figli da parte di un genitore, consentendo, possibilmente, di mantenere posto di lavoro e integrità del reddito. 

Nella disposizione della legge 81/2017 “a favore” delle madri le “buone intenzioni” non riescono, invece, a nascondere la goffaggine del provvedimento: si vuole evitare la rinuncia al lavoro (dovuta soprattutto all’insufficienza dei servizi educativi per la prima infanzia), dimenticando che le madri che si dimettono svolgono più spesso lavori di bassa qualità difficilmente distanziabili; si vuole offrire uno strumento diverso ed economicamente meno devastante rispetto al congedo, dimenticando di interrogarsi sull’effettiva compatibilità fra lavoro e accudimento dei figli piccoli, e sui rischi di tale commistione; ci si affida alla tecnica debole della priorità, che al datore richiede pochissimo.

Sorprende poi che nelle proposte di riforma della legge 81/2017 (stando ai testi sinora disponibili) si mantenga negli stessi termini la preferenzialità rivolta alle madri, in aperto contrasto con la lettera e lo spirito delle norme europee in materia di conciliazione e cura genitoriale (da ultimo la direttiva 2019/1558): la priorità che esclude i padri e incolla le madri alla doppia performance mortifica in un colpo solo principio di parità e obiettivo della conciliazione condivisa.

Se pure, magari per l’influsso della disciplina d’emergenza, si correggesse la svista più clamorosa passando a una previsione “neutra” riferita ai “genitori” la sostanza non cambierebbe granché, finché non ci si preoccupasse delle condizioni giuridiche e della qualità del lavoro agile cui i carers sarebbero “prioritariamente” assegnati. 

La preferenzialità, infatti, stigmatizza la lavoratrice madre come persona fragile in ragione dei compiti di cura, ma per il resto la lascia sola. Sul “resto” (qualità del lavoro, prospettive, garanzie, formazione, carichi di lavoro e risultati attesi…) – affidato in gran parte alla determinazione dell’accordo individuale, a meno che non intervenga una regolazione collettiva che la legge non ritiene imprescindibile – il legislatore non si impegna. Dietro la priorità c’è la doppia presunzione che la modalità agile sia di per sé idonea a realizzare l’obiettivo della conciliazione e che la lavoratrice si accontenti di un lavoro agile purchessia. Col rischio concreto di aprire un ulteriore dualismo, oltre a quello fra lavoratori smart e lavoratori “non distanziabili”: questa volta tutto interno al lavoro da remoto e molto polarizzato dal punto di vista qualitativo.

Ma non sono le donne a essere fragili, sono i diritti a essere deboli. E sul punto dei diritti le prospettive non appaiono incoraggianti. 

Se infatti, e per fortuna, molto si discute di diritto alla disconnessione, sconcerta che sia pressoché l’unico aspetto oggetto di dibattito in vista di una revisione della disciplina (ordinaria) vigente. Altrettanta attenzione meriterebbero, nella prospettiva de iure condendo, altri snodi critici. 

  1. Poco si discute delle condizioni del recesso dall’accordo di lavoro agile. Nei commenti alla legge 81 il requisito dell’alternanza fra lavoro a distanza e in presenza attutiva la percezione del problema, poiché l’esperienza mostrava ancora la modalità a distanza come marginale rispetto all’altra: il contratto di lavoro “sottostante” – si diceva – non è investito dall’eventuale risoluzione dell’accordo sulla modalità agile, conseguendone l’agevole “ritorno”, nel caso, alla modalità ordinaria. Se già era avventato parlarne in questi termini tre anni fa, ora la prospettiva è cambiata: il contratto può nascere ampiamente agile e la regolazione individuale di aspetti qualificanti delle condizioni del recesso dall’accordo rischia di spalancare una finestra sul vuoto: come non temere che il primi (le prime) a precipitare in questo vuoto siano i soggetti (considerati) più fragili perché portatori di compiti di cura che irrigidiscono la loro posizione rispetto alle esigenze organizzative dell’impresa? 
  2. Di valutazione per obiettivi si parla, sì, ma spesso in forma apodittica. Trattandosi dell’aspetto cruciale ai fini della flessibilità conciliativa (di qui passano vincoli orari e controlli, carichi di lavoro e risultati), andrebbe anch’esso sottratto al rischio di una determinazione solo individuale: che fa presto a diventare unilaterale e impositiva, dunque intrinsecamente ricattatoria.
  3. Quanto alle priorità “garantite” dalla legge e condizionate alla compatibilità delle mansioni con la modalità agile, ci si chieda quanta  discriminazione possa passare attraverso la definizione delle mansioni “remotizzabili”; oppure quanti rifiuti discrezionali, o quante valutazioni insoddisfacenti, potranno essere la conseguenza di altre (rimediabili) carenze – formative, tecnologiche, organizzative – e tuttavia colpire soggetti la cui “fragilità” in ragione dei compiti di cura non basterà, allora, a garantire alcuna tutela.

Si dirà – come si è scritto a proposito del silenzio della legge 81/2017 in materia di contrattazione – che nulla impedisce alla contrattazione collettiva di occuparsi di tutto ciò, come mostrano le numerose esperienze negoziali più o meno virtuose, e le meritorie rassegne che le documentano: ma proprio la lettura di queste suggerisce che non basta.  

Innanzitutto perché la solidarietà collettiva va riaffermata come valore, ed è compito del legislatore farlo. Anche le tecniche andranno affinate: non basterà il ritorno alla tecnica tradizionale dei rinvii né l’intensificazione delle – più recenti – misure incentivanti. Servirà un mix di tecniche diverse, incluse forme di negoziazione assistita e momenti di coinvolgimento di soggetti/istituzioni di parità (da rivedere e potenziare): per convergere sull’obiettivo di non lasciare le donne sole, né nel confronto impari con le esigenze del datore, né nel bilanciamento difficile con altre istanze collettive potenzialmente confliggenti. 

Inoltre, la riforma del lavoro agile andrebbe inclusa in un più vasto progetto di intervento, comprendente l’applicazione non riduttiva della direttiva 2019/1158: la quale assume la flessibilità come strumento funzionale al work-life balance, e la intende, per la prima volta, come flessibilità organizzativa spazio-temporale, e non come riduzione del tempo di lavoro.

Il richiamo alla centralità dei diritti induce poi a spostare l’attenzione sulle lavoratrici “non distanziabili”. 

Sono frequenti in cronaca i casi di lavoratrici più o meno apertamente indotte alle dimissioni perché coinvolte in riorganizzazioni – dei turni di lavoro e/o della dislocazione territoriale del personale – incompatibili con lo svolgimento dei compiti di cura materna (si possono citare il caso Yoox a Bologna, o il caso Venchi di Roma-Fiumicino).

I fattori che condizionano la decisione di una lavoratrice madre in casi simili moltiplicano, nell’emergenza, la loro già soffocante costrittività: dall’urgenza di disporre di un reddito (l’indennità di disoccupazione per il  periodo in cui le madri ne hanno diritto anche in caso di dimissioni è più vantaggiosa, nell’immediato, dell’indennità per congedo parentale, e il bisogno urgente di reddito si abbina perversamente a quello di una presenza domestica non delegabile), alla limitatezza temporale e quantitativa delle misure straordinarie COVID, alla frequente indisponibilità dei partner a usufruire dei diritti di conciliazione anche per la scarsa convenienza a rinunciare a porzioni della retribuzione paterna.

A tutto ciò si aggiunge la sostanziale neutralizzazione, per tutta la durata dell’emergenza, dell’unico strumento di assistenza esistente per le madri di figli piccoli (0-3 anni): la procedura di convalida delle dimissioni. Nell’indifferenza generale, infatti, il colloquio di convalida è stato soppresso, e il modulo di dimissioni – normalmente compilato nel corso del colloquio col funzionario dell’Ispettorato del lavoro – va ora “riempito” in solitudine, inviato telematicamente, e sarà percepito come semplice questionario di rilevazione statistica quando invece ha il valore tecnico-giuridico di una conferma di volontà e la funzione sostanziale di strumento informativo sulle misure di conciliazione alternative alle dimissioni. Come se di fronte a una sciagura ci si accontentasse di documentarla con un bel servizio fotografico e ci si dimenticasse di portare soccorso. Fra qualche mese, la relazione annuale sulle convalide forse non registrerà questo backstage ma ci dirà quello che ci aspettiamo e per cui ogni anno ci indigniamo: che i numeri sono in aumento, che sono numeri “femminili”, che le dimissioni dipendono in gran parte dalla impossibilità di conciliazione questa volta acuite dalla pandemia, ecc.

Per qualche caso che fa clamore, arriva alle cronache e magari si risolve positivamente perché esiste una collettività di sostegno, quanti sono i casi reali, isolati e sconosciuti? 

La lavoratrice agile e la lavoratrice che svolge mansioni non “distanziabili” paiono dunque condividere un identico e inedito tratto di “solitudine”. Non parlo tanto della condizione esistenziale di isolamento: in questo senso è evidente che sono ben diversamente “sole”. Alludo piuttosto a una medesima “solitudine giuridica”: risultante, appunto, dall’abbassamento del livello di solidarietà del sistema dovuto (anche) all’indebolimento della dimensione collettiva, e dal sostanziale arretramento dei diritti. 

In un incontro dedicato alla memoria carissima di Lauralba, e a pochi giorni dalla perdita di Luigi Mariucci, riconoscere la centralità dei diritti, e l’imprescindibilità della dimensione collettiva come condizione per l’esercizio di quelli, è ancora l’indicazione preziosa per contrastare molte “solitudini giuridiche”: che la retorica della fragilità, invece, consoliderebbe come tali.

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