Nuove leggi per il lavoro delle donne?

Gisella De Simone

Professoressa ordinaria di Diritto del lavoro, Università di Genova

Luigi Mariucci (che il Covid ci ha portato via il 10 dicembre 2020) nel 2003 scriveva che la legislazione antidiscriminatoria è la classica legge-manifesto, che non costa nulla e che difficilmente incide sugli assetti reali: una legislazione cartacea, buona per applicazioni utili solo nel settore già ultra-protetto del pubblico impiego, ma del tutto ineffettiva nel settore privato, dove si svolgono le dinamiche reali del mercato del lavoro. Aggiungeva che nessuno può negare dichiarazioni astratte di garanzia anti-discriminatoria, che hanno scarsa incidenza sui rapporti reali di produzione e lavoro: insomma, una protezione sovrastrutturale – in termini marxiani – o meglio virtuale.

E noi giuslavoristi – soprattutto noi giuslavoriste, dalle più “grandi” alle più giovani – rivolgevamo quasi indignate le nostre critiche al suo apparente cinismo, che era invece un disincanto che alcune di noi (tra le quali io) non avevamo saputo apprezzare per la sua dimensione volutamente provocatoria.

E allora: sono davvero appropriati e utili disegni di legge – pur con contenuti condivisibili – che si propongono di colmare il gender pay gap? Penso al ddl n. 1423 che giace (e continuerà a giacere, facile immaginarlo) in Parlamento, che pure è attento a (tentare di) garantire il rispetto della regola di trasparenza nelle condizioni lavorative e retributive? (http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01123476.pdf )

Tutto serve, s’intende, e si peccherebbe di “benaltrismo” ignorando un problema (spesso negato in Italia) solo perché i problemi sono (anche) molti altri. Ma pare giusto parlare – come si è fatto fin dal titolo del webinar organizzato il 15 dicembre da LCC (https://www.youtube.com/watch?v=ff2cxUkouf8&t&fbclid=IwAR1gAHrYE-go8_dBjXT3G28XMiwsWbYswXvL_UHtY6m0qT_ilqAEIkYHuMI) – di “lavoro delle donne”, riprendendo una espressione classica ma che risulta oggi desueta: si parla oggi solo o quasi di aspetti e questioni specifiche, e solo di alcune fra esse: gender pay gap, pari opportunità, condivisione e conciliazione, molestie e mobbing.

Parlare del lavoro delle donne significa mettere insieme le diverse dimensioni e i diversi tipi di lavori che le donne fanno. Particolarmente se vogliamo, come vogliamo, fare del lavoro delle donne una “risorsa per l’emergenza” ma soprattutto un “fattore di rilancio” – rilancio economico, ma anche sociale: un rilancio inclusivo che sappia “rilanciare” ­– mi si perdoni il gioco di parole – i diritti delle lavoratrici (e dei lavoratori, s’intende).

Ritengo che la tridimensionalità dell’espressione “lavoro delle donne” debba essere sempre attentamente considerata, per evitare, ad esempio, di tornare ai vecchi slogan tipo more jobs (che poi non si traduceva mai in better jobs) senza chiedersi invece di “quale” lavoro stiamo parlando. 

Tridimensionalità = dimensione sociale + dimensione economica dimensione giuridica.

Occorre agire nelle tre dimensioni/sui tre versanti, e va fatto in modo coerente, non con provvedimenti spot, isolati, ma invece con interventi legislativi, economici, amministrativi, tutti strettamente ancorati al principio di eguaglianza sostanziale (poco si è parlato e si parla di eguaglianza sostanziale nella perdurante fase emergenziale).

Mi limito ad indicare alcuni punti e alcune “piste”, anche se non originali:

– sul versante sociale: nidi e scuole per l’infanzia con orari flessibili e costi graduati rispetto al reddito della madre o del padre (o di entrambi ove conviventi); servizi pubblici (trasporti in primis) efficienti e “sicuri” (da tutti i punti di vista); reddito minimo garantito per i minori.

– sul versante economico: servizi per l’impiego, servizi all’imprenditoria e al lavoro autonomo (professioni regolate e non); revisione dei sistemi di tassazione del lavoro (e aumento di riequilibrio della tassazione del capitale), non necessariamente secondo le proposte, tirate fuori da polverosi cassetti, sulla tassazione differenziata per il “lavoro aggiuntivo” delle donne rispetto al nucleo familiare/al lavoro del “marito”, il cui presupposto già meriterebbe di essere discusso e a mio avviso criticato, come ho avuto occasione di osservare (Conciliare lavori e famiglie. Differenze virtuose e differenze perniciose in tema di tassazione dei redditi da lavoro e di sistemi pensionistici, in LD, 2009, p. 255 ss. https://www.rivisteweb.it/doi/10.1441/29432 ) quando la grancassa della stampa divulgativa aveva recuperato le prime proposte di Alberto Alesina e Andrea Ichino (un esempio in https://www.pietroichino.it/?p=18301 ).

– sul versante giuridico e amministrativo: incrementare i controlli sulla autenticità e sulle ragioni delle dimissioni e delle risoluzioni consensuali (post maternità in particolare), nonché sulle trasformazioni full time/part time e viceversa e sui mancati rinnovi dei contratti a tempo determinato (somministrazione compresa); intervenire sulla disciplina dello smart working, nel privato e nel pubblico, ridimensionando o circondando di cautele il ruolo oggi affidato alla contrattazione individuale (penso ai temi dei controlli, dell’esercizio dei poteri); riforma della disciplina del tempo di lavoro (non solo orario, anche congedi, ferie, permessi), con l’intervento della contrattazione collettiva, garantendo almeno a tutti almeno il diritto alla disconnessione e interconnettendo orari di lavoro e orari dei servizi pubblici, come andiamo dicendo inutilmente ormai da troppi anni. Tutti i possibili interventi, sui tre versanti, devono essere correlati al lavoro svolto dalle donne, ed è necessario, allora, parlare di “lavori”, al plurale. Le dicotomie. le separazioni, le distanze tra lavori diversamente valutati, valorizzati, ignorati o protetti sono aumentate, non diminuite, in questi anni, e in questi ultimi mesi ancor più.

Richiamo solo due esempi: 

– il lavoro domestico, che continua ad essere la Cenerentola del lavoro femminile e del lavoro in generale;

– la dicotomia tra chi ha lavorato e lavora in presenza o invece da remoto, differenza che non è una trascurabile banalità (basti ricordare la presenza delle donne nel settore ospedaliero).

La legge, le leggi sono in molti casi indispensabili, e dunque occorreranno anche nuove leggi. Ma leggi “con le gambe”: parti sociali e amministrazione pubblica che possano farle funzionare. Insomma: non leggi manifesto, non legislazione cartacea. Solo un sogno?

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