Pandemia e lavoro di cura: un cantiere (che va) aperto

Donata Gottardi

Professoressa ordinaria di Diritto del lavoro, Università di Verona, Pro-rettrice vicaria

                                                                       A Lauralba, 

alle sue stelline, 

a una collega e amica e ai nostri comuni percorsi e interessi

Come spesso accade, non ci siamo trovati preparati e non solo sul versante sanitario. La storia del telelavoro e poi del ‘lavoro agile’ o smart working è emblematica. Passare da una quota limitata (approssimativamente intorno al 10% del personale) alla quasi totalità, come è accaduto nella primavera dello scorso anno nelle pubbliche amministrazioni, è stato ed è tuttora fonte di non pochi irrisolti problemi. Per di più rischiamo di confondere le idee continuando a qualificare come lavoro agile il ‘lavoro da casa emergenziale’.

Colpisce sentire nelle interviste che ci sono persone – quasi sempre lavoratrici – che da un anno lavorano da casa, che non hanno più rivisto il precedente spazio lavorativo e ne parlano come fosse lavoro agile. Eppure l’inquadramento giuridico non è questo: il lavoro agile è stato pensato come telelavoro flessibile, con alternanza tra luoghi diversi di lavoro.

L’analisi di quanto è accaduto e tuttora accade nelle pubbliche amministrazioni è particolarmente significativa, sia per quantità di ricorso effettivo al lavoro a distanza, sia per ampia e significativa regolamentazione spinta al punto da qualificarlo – nei momenti di massima espansione della pandemia – come la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa.

Utile allo scopo, in particolare, è un recente decreto ministeriale (9 dicembre 2020) che attualizza e rilancia l’adozione di un Piano organizzativo del lavoro agile (POLA), cui vengono dedicate apposite Linee guida, finalizzate al suo sviluppo. Il documento, ricco e articolato, è esemplare nella sua schizofrenia tra innovazione e conservazione, tra un futuro annunciato e la ritrosia al cambiamento, anche per la difficoltà insita in soluzioni tuttora lontane dall’essere trovate.

Tutta la prima parte del testo è dedicata ad aprire proiezioni verso un futuro da ricostruire partendo da «un ripensamento complessivo della disciplina del lavoro pubblico», dato che l’attuale «riflette modelli organizzativi basati sulla presenza fisica in ufficio, con la conseguenza che numerosi istituti relativi al trattamento giuridico ed economico non sempre si conciliano con il cambiamento in atto», come le sospensioni dal lavoro (congedi e permessi) e l’orario di lavoro (lavoro straordinario).

Si immagina, sempre nella prima parte del documento, il passaggio a un «patto fiduciario tra l’amministrazione e i lavoratori», che ‘restituisc(a) ai lavoratori autonomia in cambio di responsabilizzazione sui risultati, in una logica qualificata come win-win senza però arrivare a spingersi verso forme collettive partecipative, come la codeterminazione. Si parla piuttosto di «collaborazione tra l’amministrazione e i lavoratori per la creazione di valore pubblico, a prescindere dal luogo, dal tempo e dalle modalità che questi ultimi scelgono per raggiungere gli obiettivi perseguiti dall’amministrazione». Ne deriva per i lavoratori «un’ampia discrezionalità nel differenziare il luogo, il tempo e la durata del proprio lavoro».

Si propone, quindi, una «cultura organizzativa basata sui risultati, capace di generare autonomia e responsabilità nelle persone, di apprezzare risultati e merito di ciascuno»; di passare a un «sistema di misurazione e valutazione unico» che prescinda dal luogo di lavoro e a un «orientamento dell’amministrazione ai risultati».

Tutto questo, come d’incanto, sparisce nella seconda e operativa parte delle Linee guida in cui si precisa, seguendo un progetto considerato buona prassi, che «per misurare la concreta applicazione di questa modalità di lavoro … è opportuno l’utilizzo di un indicatore che sia riferito alla sua effettiva implementazione: numero di ore o giornate in lavoro agile su totale ore o giornate lavorative». Tra i vantaggi, quale indicatore dell’efficienza produttiva, si fa riferimento alla diminuzione delle assenze e, quale riflesso patrimoniale, il «minor consumo di patrimonio a seguito della razionalizzazione degli spazi».

In altri termini, ci si basa ancora sull’orario di lavoro e, in aggiunta, si rivendica un effetto positivo nella riduzione di congedi e permessi, nonostante tra gli obiettivi generali rientrino le «migliori condizioni di pari opportunità nella gestione tra tempi di vita e di lavoro, soprattutto per le donne su cui ricade ancora oggi il maggior carico di cura».

Il confinamento nel domicilio rischia di far regredire di molti decenni la ripartizione dei ruoli famigliari. Anche su questo piano sta accadendo l’inimmaginabile: l’espandersi dell’innovazione tecnologica riporta all’indietro l’orologio dell’emancipazione femminile. Emancipazione. Termine ormai in disuso. Inoltre si sottovaluta che i luoghi in cui si vive non sempre sono adeguati e che la qualità delle relazioni domestiche dipendono dai mezzi economici e, ancor più, dai rapporti sentimentali.

I timori trovano conferma in un quartetto di Risoluzioni adottate dal Parlamento europeo il 21 gennaio: Prospettiva di genere nella crisi COVID-19 e nel periodo successivo alla crisiDiritto alla disconnessioneColmare il divario digitale di genere: la partecipazione delle donne all’economia digitale e Strategia dell’UE per la parità di genere. Come è noto, l’ultima Risoluzione è adottata periodicamente, così come periodicamente vi si trovano elencati ambiti di criticità e lentezze nel raggiungere risultati nel processo di superamento delle discriminazioni. Questa volta, in chiusura del documento, compare un inquietante paragrafo dedicato a come «contrastare i regressi in materia di parità di genere». Per chi si occupa da anni di discriminazioni e parità di opportunità è un sinistro campanello di allarme: non solo continuiamo a non aver raggiunto la parità sostanziale, ma rischiamo di allontanarcene.

Queste osservazioni non sono volte a demonizzare il lavoro a distanza da casa. Anzi. Non vi è dubbio che molti siano i vantaggi: garantisce continuità lavorativa, riduce il rischio di contagi per sé, per il proprio nucleo famigliare, per l’intera società, abbatte il traffico e l’inquinamento. Tuttavia, in questa fase di transizione verso l’uscita dalla pandemia, occorre preparare il terreno per cambiamenti che non possono più essere rinviati, con un ruolo decisivo delle parti sociali. 

In altri termini occorre iniziare a predisporre una attenta regolazione contrattuale, che non si limiti a replicare o avere come riferimento il medesimo orario di lavoro applicato nei luoghi del datore di lavoro. Ricordiamoci che la conciliazione e la ripartizione del lavoro di cura esige flessibilità dei tempi e dei luoghi, lasciando alle persone l’auto-organizzazione e la realizzazione dei compiti affidati, senza mutare la natura subordinata del rapporto di lavoro. Non basta il riconoscimento del diritto alla disconnessione a risolvere questi problemi.

Si dovrebbe, invece, utilizzare questo disgraziato periodo di costante pandemia per attrezzarsi e sperimentare come piegare i cambiamenti verso la redistribuzione dei ruoli, che richiede un approccio mainstream, ampia flessibilità, superamento dell’orario di lavoro come unica base di calcolo, mescolamento libero tra luoghi di lavoro e luoghi personali.

Cosa rimarrà? L’interrogativo è spesso ripetuto. Forse sarebbe più utile chiedersi cosa stia mutando, come l’intelligenza artificiale e la digitalizzazione possano consentire una organizzazione del lavoro friendly, quanto impegno vada dedicato ad evitare di riprodurre problemi storici che si pensava superati.

Chiudo queste brevi note con una proposta provocatoria. Perché non proviamo noi docenti universitari a diventare protagonisti nei ruoli e nei luoghi del nostro lavoro universitario? Sta a noi, mi pare, guardare e analizzare come si stia sviluppando il lavoro a distanza in ciascuna nostra sede, poiché lavoriamo in Atenei che regolano e/o attuano home working. Sta a noi organizzare la rilevazione delle prassi e i loro costanti cambiamenti organizzativi. Non si tratta di una inchiesta mediante questionari; ce ne sono già molti proposti ricorrentemente on line. Si tratta piuttosto di volgere l’attenzione al nostro interno, applicando strumenti e metodologie che normalmente utilizziamo verso l’esterno.

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Una risposta.

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