Smartworking? Una teorizzazione del doppio carico di lavoro

Luciana Guaglianone

Professoressa associata di Diritto del lavoro e di Diritto Sindacale, Università di Brescia

Maria Laura Parisi

Professoressa associata di Economia Politica, Università di Brescia

1) La nostra indagine sui dati 

Nelle imprese italiane durante la pandemia di Covid-19 si è avuta un’evidente crescita percentuale del personale impiegato in modalità smartworking. L’uso di smartworking ha accentuato la divisone patriarcale dei compiti, mettendo in discussione l’idea, molto pubblicizzata, di un suo utilizzo come strumento di conciliazione. Conducono a questa conclusione i dati di un lavoro di ricerca che ci ha permesso di valutare, per ciascun settore, la percentuale di occupati donne in smartworking distinguendo tra la Fase 1 e la Fase 2della situazione emergenziale. Il metodo di ricerca che abbiamo seguito si è servito della classificazione internazionale sulle occupazioni (ISCO-08) che riporta le occupazioni che si possono compiere completamente a distanza, principalmente a distanza, principalmente sul luogo di lavoro o completamente sul luogo di lavoro, e per ogni tipologia abbiamo estratto la percentuale di occupazione femminile. Questa percentuale infine è stata applicata alle percentuali di occupati “smart” per ogni settore nei due bimestri dell’emergenza (dati ISTAT, 2020).

Durante la Fase 1 (Marzo-Aprile 2020) il risultato della ricerca da noi condotta mostra che buona parte dei lavoratori a distanza erano donne. Nel settore dell’Istruzione (a maggioranza femminile) del 32% di occupati in smartworking circa 12-20% erano donne. Nei settori con minor incidenza di lavoro a distanza (estrazione di minerali, manifatturiero, costruzioni, commercio, servizi sanitari) quasi tutti i lavoratori a distanza erano donne. 

Durante la Fase 2 (Maggio-Giugno 2020), invece, l’incidenza diminuisce in ogni settore ma i rapporti tra occupazione femminile e occupazione a distanza rimangono praticamente immutati. Nei settori in cui poche imprese hanno adottato la modalità a distanza quasi solo donne hanno scelto tale modalità, sia durante il lockdown che dopo l’apertura. La maggior presenza delle donne nei settori che hanno adottato in minor misura la modalità smartworking, con eccezione dei settori dell’istruzione e del turismo, è causata da una serie di ragioni tra cui la loro occupazione in posizioni meno pagate o in attività  di cura professionale o in settori ad alta intensità di relazione (EIGE, 2021).

La Figura 1 riporta le percentuali di occupati in smartworking durante la Fase 2 (pallini bianchi); l’intervallo stimato della percentuale di donne lavoratrici in smartworking (frecce verdi); la percentuale stimata di donne per specifiche occupazioni (pallini rossi), per ogni settore dell’attività economica (in grassetto i settori che occupano le donne per più del 50% della forza lavoro).

2) Le trappole dello “scopo di conciliazione” 

È importante leggere i dati ricordando lo scopo attribuito dal Governo allo smartworking. Nella Fase 1 per il Decreto “Cura Italia” (d.l. n. 18/2020, conv. in l. n. 27/2020) è “la soluzione migliore”, non imposta ma consigliata. Nella Fase 2 il Decreto “Rilancio” (d.l. n. 34/2020, conv. in l. n. 77/2020), di fatto, lo propone come strumento di conciliazione. La modifica delle modalità di prestazione del lavoro non è più solo una facoltàdell’imprenditore, ma diventa un diritto per i genitori che lavorano e che hanno figli di età inferiore ai 14 anni. Le condizioni perché si possa accedere allo smartworking non sono correlate, come sarebbe stato naturale, alla tipologia di attività lavorativa, ma alla necessità che in casa rimanga qualcuno per prendersi cura dei figli. Il diritto, però, sorge se l’altro genitore non è in Cig o in trattamento di disoccupazione. La conclusione è duplice: lo smartworking diventa strumento di conciliazione e la conciliazione è un compito che si può svolgere anche mentre si lavora. Una perfetta teorizzazione del doppio carico di lavoro.

La conclusione è confermata dalla letteratura esistente che dimostra che la crisi ha aumentato il carico di lavoro complessivo per tutte le donne (chi lavora a casa, sul luogo di lavoro o chi non lavora a causa dell’emergenza). Gli uomini, invece, hanno una probabilità più alta di trascorrere il tempo con i figli piuttosto che occupati in lavori domestici, meno gratificanti.  Di conseguenza, solo  se gli uomini si occupassero di più di lavoro domestico, le donne sarebbero più incoraggiate a partecipare al mercato del lavoro (Del Boca et al. 2020).

Il grande laboratorio costituito dallo smartworking, alla luce dei dati, mette da subito in discussione gli obiettivi della direttiva n.2019/1168, non ancora recepita, ma per molte cose nata già vecchia. In particolare l’obiettivo del lavoro a distanza (anche) come mezzo di conciliazione (v. considerando n. 35). Nonché l’affermazione che l’accesso da parte dei padri a meccanismi di conciliazione, come il lavoro flessibile, incida positivamente sulla percentuale di lavoro domestico non retribuito svolto dalle donne (considerando n. 11).

 Una sola legge è impotente di fronte ai pregiudizi ed agli stereotipi che guidano le scelte quando si tratta di lavoro di cura e di lavoro domestico. Diventa sempre più urgente che il gap di genereche costantemente si riscontra (anche) quando si affronta il tema della conciliazione condivisa, venga affrontato cambiando modo di legiferare. Ora è più necessario che mai utilizzare la tecnica dell’impatto di genere come metodo di analisi preventivo per integrare la prospettiva di genere in tutti i processi normativi che coinvolgono le istituzioni pubbliche e che si dia rilevanza all’intersezionalità come meccanismo di analisi (Chieregato, 2020). 

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