Annamaria Donini
Ricercatrice di Diritto del lavoro, Università di Genova
Il modello di prestazione lavorativa prevalente alle origini del diritto del lavoro era costruito attorno alla figura del male breadwinner, ossia dell’uomo che mette a disposizione dell’impresa energie fisiche o mentali al fine di garantire un reddito a sé e alla propria famiglia, e che, contemporaneamente, può beneficiare del lavoro domestico e di cura di altri. La ricorrenza di questo schema ha permesso l’affermazione e il consolidamento di una tendenziale separazione tra il lavoro, a cui si dedicavano gli uomini, e la vita familiare, che vedeva l’impegno delle donne, separazione che si è spesso tradotta in una cristallizzazione della divisione dei ruoli tra i generi. Il complesso delle attività svolte al di fuori dei limiti orari e di spazio individuati nel contratto, pertanto, non aveva alcuna possibilità di essere preso in considerazione nella dinamica del rapporto di lavoro. Progressivamente, al ricorrere di alcune ipotesi selezionate dalla legge o dalla contrattazione collettiva, è stato previsto che l’attività lavorativa dovesse essere organizzata in modo da consentire l’esercizio di alcuni specifici diritti individuali. La necessità di garantire posizioni soggettive meritevoli di tutela ha determinato l’introduzione di limiti di durata della prestazione o di regole per l’articolazione del tempo di lavoro, oppure ha giustificato ipotesi di sospensione del rapporto. Molti condizionamenti alla libertà di organizzazione dell’impresa sono stati determinati dalla crescente presenza femminile nel mercato del lavoro e dalla volontà di favorirla. La necessità di riconoscere tempo per le esigenze personali e familiari è stata infatti affermata per la prima volta nel solco di quegli istituti che consentivano alle lavoratrici di occuparsi dei figli e della vita familiare; solo in seguito è stata rivolta ad altri obiettivi, come quello di sostenere il percorso di condivisione degli oneri di cura.
La ricorrente divisione tra i generi dei due macro-settori di attività (lavoro professionale, lavoro di cura) ha prodotto una serie di riflessi sull’organizzazione della produzione e sulle modalità di conformazione della prestazione lavorativa, difficili da individuare e ancor più da correggere. Una lettura critica delle conseguenze del modello del male breadwinner/female caregiver sull’organizzazione del lavoro, oltre che sul welfare, è stata offerta dalla social reproduction theory, elaborata in particolare da Nancy Fraser (Fraser N. (2017), Crisis of Care? On the Social-Reproductive Contradictions of Contemporary Capitalism, in T. Bhattacharya (a cura di), Social Reproduction Theory: Remapping Class, Recentering Oppression, Pluto Press) e Tithi Bhattacharya, ma già presente negli studi delle femministe marxiste degli anni ‘70 (per alcuni riferimenti, http://www.intotheblackbox.com/articoli/la-questione-della-riproduzione-sociale/#_ftnref12). Tale teoria intende far emergere e attribuire rilevanza, all’interno dell’analisi economica e sociale dei processi produttivi, non solo al lavoro, inteso come productive labour, ma anche all’insieme delle attività che consentono al fattore lavoro di esistere e di rigenerarsi. Si tratta di disvelare e valorizzare una rete complessa di processi sociali e di relazioni umane che riguardano la cura di sé e della propria famiglia, così come il benessere psico-fisico e la crescita intellettuale, e che concorrono a produrre e mantenere le condizioni di esistenza di ciascuno (Bhattacharya (2017) Mapping Social Reproduction Theory, in T. Bhattacharya (a cura di), Social Reproduction Theory cit.). Qualora non vi sia un adeguato riconoscimento giuridico-economico dell’impegno dei lavoratori in tali ambiti, si determina il rischio di una costante e gratuita appropriazione del lavoro altrui da parte dell’impresa, perché la riproduzione sociale, così intesa, riguarda ciascuna lavoratrice e ciascun lavoratore, in modi, forme e intensità diverse durante tutto l’arco della vita.
Tale lettura della relazione tra attività prestata nell’interesse di soggetti terzi e altre attività necessarie per la conservazione della forza lavoro ha generato una riflessione più specifica nel solco del diritto del lavoro. Secondo gli studi di alcune giuslavoriste femministe come Judy Fudge (Fudge J. (2014), Feminist Reflection on the Scope of Labour law: Domestic work, Social Reproduction, and Jurisdiction, in Feminist legal studies, 22, p. 1 ss.) e Joanne Conaghan (Conaghan J. (2017), Labour Law and Feminist Method, in International Journal of Comparative Labour Law and Industrial Relations, 33, 1, p. 93), i confini della disciplina del diritto del lavoro dovrebbero essere estesi oltre il tempo e il luogo della prestazione, fino a rivolgersi anche alle attività di “riproduzione sociale”, perché queste non sono soltanto uno spazio da garantire alla lavoratrice o al lavoratore per esercitare un diritto soggettivo. Il lavoro a favore di un’impresa implica sempre che in via preliminare o collaterale siano eseguite diverse tipologie di compiti che riguardano la cura di sé o della propria famiglia. Trattandosi di attività che si inseriscono nella catena del valore del lavoro, non possono essere accantonate e collocate all’esterno dell’ambito di interesse giuslavoristico.
È utile, tuttavia, comprendere se la prospettata estensione dei confini della disciplina discenda da una specifica rilevanza all’interno del rapporto di lavoro delle relazioni e attività cd. di riproduzione sociale. Il loro carattere essenziale rispetto alla conservazione e al mantenimento della possibilità di prestare lavoro, a ben vedere, non può che riverberarsi sullo scambio interno al rapporto di lavoro. Ricevendo la prestazione dedotta in contratto, i datori beneficiano indirettamente anche degli effetti di varie altre attività di carattere personale e quotidiano svolte dai lavoratori stessi o da altri soggetti. E di conseguenza, i modi e i tempi di tali attività non possono essere soltanto una vicenda privata dei lavoratori, ma diventano una responsabilità del soggetto che ingloba la prestazione lavorativa nel proprio processo produttivo (Fudge 2014).
Per assegnare valore giuridico a tale responsabilità è necessario accertare se sia possibile introiettare o almeno considerare le attività di social reproduction all’interno del contratto di lavoro. La verifica può fornire esito positivo se si valorizzano le implicazioni dell’obbligo datoriale di protezione della salute dei lavoratori, e in particolare, se si aderisce ad una lettura del bene “salute” quale situazione di completo benessere fisico, mentale e sociale dei prestatori che rileva anche sul piano della collettività, perchè contribuisce al supremo interesse pubblico di tutela della salute dei cittadini.
Se si adotta questa prospettiva, garantire la salute dei prestatori significa anche evitare che l’organizzazione del lavoro ostacoli lo svolgimento dell’insieme di attività umane e sociali che non solo costituiscono un’esigenza di ciascun individuo, strumentale alla conservazione ed evoluzione della società, ma sono anche precondizioni necessarie per lo svolgimento dell’attività lavorativa. Il pieno rispetto dell’obbligo datoriale di tutela della salute e sicurezza dei prestatori implica, pertanto, un’organizzazione del lavoro compatibile con lo svolgimento delle attività di cura di sé e dei familiari.
L’esempio più significativo delle conseguenze della lettura proposta si ha in riferimento alle regole che presiedono la programmazione del lavoro: basti pensare alla mancanza di un preavviso per la modifica dei turni, oppure alla distribuzione degli stessi su fasce orarie che coprono l’intera giornata, dall’alba a tarda notte. Tali circostanze impediscono alle lavoratrici e ai lavoratori di adempiere agli essenziali compiti di cura di sé, dei figli o della famiglia. La cronaca di fine 2020 ha posto alla luce le azioni di lotta delle facchine (in appalto) di Yoox, una grande azienda di vendita di abbigliamento online, che hanno subìto una modifica dei turni di lavoro non compatibile con le ordinarie esigenze di accudimento di familiari e in particolare della prole, e tale da condurre alcune di esse alle dimissioni.
La disciplina dell’orario di lavoro riveste un ruolo cruciale nella composizione di una nozione di prestazione lavorativa che non riproduca la separazione stereotipata dei ruoli maschili e femminili e concorra alla condivisione dei compiti di cura e di accudimento. In mancanza di regole di origine legislativa o contrattual-collettiva che impongano o promuovano un’organizzazione del lavoro a misura di donne e uomini, la predisposizione di un’articolazione oraria che sia di ostacolo immediato ed evidente alla possibilità di svolgere le minime attività di accudimento e cura di sé e dei familiari può costituire una violazione dell’obbligo giuridico prevenzionistico, in quanto lesiva della salute psicofisica e della personalità morale dei lavoratori.
Al contrario, il pieno rispetto della regola codicistica potrebbe suggerire una diversa declinazione del periodo di riposo che non sia soltanto il “negativo” dell’orario di lavoro (art. 1, lett. b, d. lgs. n. 66/2003) ma che comprenda al suo interno un tempo – eventualmente forfetizzato – strumentale alla rigenerazione delle energie lavorative che confluiscono nel processo produttivo. Questo orario si collocherebbe in una posizione intermedia, né tempo di lavoro, né tempo di riposo, quale orario “propedeutico al lavoro” dedicato alle attività di cd. social reproduction.
I termini “cittadini”, “datori”, “lavoratori” e “prestatori” sono da considerarsi comprensivi del riferimento a uomini e donne.
Una risposta.
[…] Annamaria Donini, “Social reproduction theory e diritto del lavoro. Per un’organizzazion… […]